venerdì 25 aprile 2014

Ecuador nel bersaglio del sovvertimento statunitense ( PL)


Roberto Garcia Hernandez*

Le azioni di sovvertimento più recenti contro la Rivoluzione Cittadina nell'Ecuador, denunciate dal Presidente Rafael Correa, formano parte del sistema di operazioni previste nei documenti emessi dal Pentagono e dalle altre agenzie federali nordamericane.

Come ha indicato il Presidente, le entità statunitensi incaricate dello spionaggio e del sovvertimento utilizzano tutti gli strumenti che hanno a disposizione per tentare di distruggere i movimenti ed i governi progressisti nell'area.

Correa ha chiamato l'attenzione sul pericolo dei
fattori che integrano la la Guerra di Quarta Generazione (G4G), un elemento in più dentro la dottrina militare di Washington, ora rinnovato con nuove forze per il sovvertimento nei paesi d’oltremare.

Il concetto è stato descritto inizialmente nel 1989 da William S. Lind, esperto nei temi militari ed è stato sviluppato alla fine del secolo XX da altri teorici del sovvertimento e della contro-insorgenza.

Dopo essere arrivati al potere i movimenti progressisti in America Latina ed il fallimento della politica di Washington nelle operazioni di insorgenza nei paesi d’oltremare, questo concetto è stato attualizzato a partire dal 2006 dagli specialisti del Pentagono.

La Giunta dei Capi dello Stato Maggiore, massimo organo di direzione operativa delle Forze Armate nordamericane, definisce la G4G nel suo dizionario terminologico come "qualsiasi competizione in cui uno dei principali partecipanti non è uno Stato, ma un attore non statale".

Il testo aggiunge che è un conflitto caratterizzato da una delimitazione molto vaga
e sparsa delle linee che separano la guerra e la politica, così come i soldati e la popolazioni civili, nel quale avviene un attacco diretto contro la cultura del nemico, una lotta psicologica altamente sofisticata.

La definizione mette in rilievo il bisogno di manipolare i mass media ed i processi legali del paese aggredito, oltre a usare tutti i tipi di pressioni politiche, economiche, sociali, militari, così come l'appoggio finanziario e l'uso di tattiche di propaganda, di terrore e di confusione.

Quando le condizioni lo permettono, la massima espressione di questo tipo di guerra "è l'attività delle bande armate che lottano contro il governo legalmente stabilito, cioè, i gruppi guerriglieri o semplici gruppetti di individui che realizzano sabotaggi ed atti di violenza".

Il documento indica che l'obiettivo: "è forzare l'avversario ad incrementare le risorse finanziarie ed il numero delle forze che tentano di stabilire l'ordine a tutti i costi, fatto che crea una spirale di violenza e di anarchia fino a quando lo Stato si arrende o si ritira".

D'altra parte, è difficile dire in quale momento si parla della G4G o di altri mezzi di sovvertimento, perché nel campo di battaglia di queste contende si usano le forme più idonee per ogni situazione, secondo evidenziano i documenti dottrinali.

Il Documento d'Allenamento TC-1801 delle Forze d'Operazioni Speciali, pubblicato in novembre del 2010 intitolato la Guerra non Convenzionale (GNC), presenta una terminologia con alcune differenze rispetto alla forma, sebbene gli obiettivi siano gli stessi.

La TC-1801 definisce la GNC come "l'Insieme delle attività indirizzate a sviluppare un movimento di resistenza o di insorgenza, con lo scopo di far pressione, alterare, sconfiggere un governo o prendere il potere tramite l'uso di una forza guerrigliera ausiliare o clandestina".

Nella G4G così come nella Guerra non Convenzionale, un ruolo importante lo giocano le Operazioni  di Informazione, create dal Pentagono per colpire i sistemi informativi dell'avversario ed utilizzare i rumori che si espandono ampiamente con l'obiettivo di influire nell'opinione pubblica .

Per queste e altre tante cause il Presidente ecuadoriano ha ragione quando indica che la G4G o qualsiasi variante di sovvertimento simile, sono tra i maggiori pericoli che affronta la Rivoluzione Cittadina che ha luogo in Ecuador dal suo arrivo al potere nel 2007.


*giornalista di Prensa Latina


domenica 13 aprile 2014

Venti anni fa, il genocidio in Ruanda. Com'è stato possibile l'orrore?




20 anni fa aveva luogo uno degli eventi più terrificanti del ventesimo secolo. In tre mesi, un numero compreso tra 800.000 e 1 milione di persone sono state assassinate in Ruanda, paese che ad oggi conta circa 7 milioni di abitanti. Dal 1916 al 1962, il Ruanda fu sotto il dominio belga e nei 30 anni successivi il paese divenne partner privilegiato della politica belga in Africa. Come si è giunti a tutto ciò? Ritorniamo brevemente sui meccanismi fondamentali che condussero al genocidio.

Tony Busselen | solidaire.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare


Se nello Zaire di Mobutu, gli Stati uniti e, in misura inferiore, la Francia, avevano preso il posto occupato dal Belgio durante il periodo coloniale, in quel piccolo paese neocoloniale che era il Ruanda, il Belgio era riuscito a conservare la propria influenza di vecchia potenza coloniale.

Così, nel 1984, il vecchio vice-governatore del Ruanda, Jean-Paul Harroy, scriveva, non senza ostentare una certa fierezza: "Nel Ruanda indipendente, i due governi succedutisi continuavano a trovarsi su quella retta via di governo che i belgi avevano tracciato venticinque anni fa" (1). E' per questo che il Ruanda ha potuto beneficiare di un trattamento di favore. Dal 1962 al 1990, gli ufficiali ruandesi di alto rango erano formati in Belgio. Ora, è proprio in questo paese, restato per decenni il gioiello della presenza belga in Africa, che nel 1994 si è verificato un genocidio.

Sono probabilmente numerosi gli operatori dell'aiuto allo sviluppo e i missionari belgi, che dirigevano ogni tipo di progetto, ad essere stati degli idealisti in buona fede. Tuttavia, conviene interrogarsi sulle cause strutturali che resero possibile questo genocidio.

Nel corso degli anni 1970 e 1980, il Ruanda ha ricevuto dal governo belga la quantità proporzionalmente maggiore di aiuti allo sviluppo, ma, ciò malgrado, il paese figurava all'inizio del 1994 tra quelli più poveri al mondo. In quel momento, il reddito pro capite annuo raggiungeva in media i 270 dollari. Si registrava un medico ogni 34.000 abitanti, e il 33% dei bambini erano sotto-alimentati (2).

Nel 1987, le multinazionali del caffè fecero saltare la coalizione che si era costituita tra i paesi produttori. Il Ruanda ne faceva parte. In un anno, il prezzo del caffè cadde del 30% (3). Nel 1992, gli aiuti allo sviluppo percepiti dal Ruanda raggiungevano i 33 milioni di dollari, vale a dire appena un terzo di quanto il paese aveva perduto in seguito alla caduta del prezzo del caffè (4).

Appena prima del genocidio dunque, il reddito dei contadini calava globalmente. Tuttavia, la disuguaglianza di reddito cresceva a tutta velocità sotto gli effetti della politica di liberalizzazione imposta dal Fmi e dalla Banca mondiale. "Tra il 1990 e il 1992, il reddito del 10% più ricco aumentava vertiginosamente, nonostante la miseria che colpiva i contadini, scriveva così il professor Jef Maton. Nel 1982, il decimo decile (i 10% più ricchi, ndr) si accaparrava il 20% dei redditi agricoli, il che non è molto. Nel 1992, gli toccava il 41%, nel 1993 il 45%, per giungere, all'inizio del 1994, al 51%" (5).

Dal razzismo etnico al genocidio

L'elemento principale del genocidio era evidentemente l'ideologia razzista, che trasforma la minoranza Tutsi e la maggioranza Hutu in nemici ereditari. Alcuni affermano che questa inimicizia scaturiva da un "odio secolare tra Hutu e Tutsi" e non aveva niente a che vedere con la colonizzazione. Ma è così?

"I Banyarwandas erano persuasi, prima della penetrazione europea, che il loro paese fosse il centro del mondo, il regno più grande, più potente e civilizzato di tutta la terra. (…) Sono pochi i popoli in Europa ad essersi riuniti sulla base di questi tre fattori di coesione nazionale: una lingua, una fede, una legge", scrive padre Louis De Lacger (6).

In origine, gli Hutu erano dei clan di famiglie di agricoltori, i Tutsi invece dei clan di allevatori. Il regno, scoperto dai tedeschi, era il risultato di un processo storico iniziato intorno al 1450, cominciato con la formazione di piccoli regni, alcuni diretti da un re hutu e altri da un re tutsi. Questi regni si facevano la guerra, con risultati mutevoli. A partire dal 1730, una dinastia tutsi, quella dei Banyiginya, riuscì progressivamente a far valere il suo potere in tutti i territori dove si parlava kinyarwanda. Perseguitò e massacrò gli altri piccoli re che rifiutavano di diventare vassalli. Nell'ucciderli, non teneva conto dell'origine etnica: Tutsi o Hutu, ciò non aveva alcuna importanza.

Nel corso di questo processo storico, ebbe luogo un'integrazione tra Tutsi e Hutu. Dei primi 12 re ruandesi, 9 hanno sposato una donna hutu. I 18 clan ruandesi contano sia molti Hutu che Tutsi. Il 57% del clan dei Banyinginya, i re che hanno preso il sopravvento a partire dal 1730, era anch'esso composto da Hutu (7).

Un'ideologia razzista

Durante il periodo della conquista coloniale, le teorie razziste facevano parte dell'ideologia dominante in Europa. Per giustificare il colonialismo, certi "pensatori" divisero il mondo in razze "superiori" e "inferiori". I colonizzatori tedeschi che, per primi, conquistarono il Ruanda, applicarono queste teorie e ritennero di avere scoperto due "razze": la "razza Tutsi" e la "razza Hutu". Secondo questa interpretazione, gli Hutu erano considerati gli abitanti indigeni mentre i Tutsi, venuti del nord, avrebbero in seguito invaso il paese. Una tale invasione non ebbe mai veramente luogo, ma dopo che il Belgio prese possesso del Ruanda nel 1916, durante la Prima guerra mondiale, le autorità ripresero per i propri fini questa teoria razziale.

All'inizio del regime coloniale, le autorità coloniali belghe esitarono prima di decidere quale "razza" avrebbero sostenuto. Sotto l'influenza della Chiesa, finirono per scegliere il campo di coloro che erano descritti come la razza superiore: i Tutsi.

L'integrazione tra i due gruppi etnici, che andava avanti da nove secoli, aveva nella maggior parte dei casi condotto ad una cancellazione dalle differenze fisiche tra le due etnie. Erano soprattutto le persone di uno stesso quartiere, persone che si conoscevano da sempre, a essere in grado di dire chi era Hutu e chi era Tutsi. Oggi, del resto, è spesso ancora così. Tuttavia, le autorità coloniali belghe volevano che ciò fosse chiaro, e decisero dunque di iscrivere l'etnia sulla carta di identità.

Allo stesso tempo, vennero utilizzati i miti e cliché più reazionari e razzisti sul conto di ogni gruppo per illustrare e giustificare l'ideologia razzista del colonizzatore. Il vescovo belga del Ruanda, Monsignor Classe, qualificò i Tutsi come dei "capi-nati". Il Belgio organizzò una tutsificazione: oramai, solo i Tutsi potevano diventare capi, e i loro bambini potevano seguire una formazione superiore alla scuola Astrida, dal nome della regina Astrid.

Dopo avere promosso l'ideologia della razza superiore dei Tutsi per tre decenni, le autorità coloniali belghe scoprirono, spaventate, l'impatto dell'anticolonialismo sui giovani intellettuali tutsi durante gli anni 1950, periodo nel quale il vento dell'anticolonialismo sferzò l'Africa intera. Il governo belga non tardò a cambiare strategia. In quattro anni, formò una élite hutu con la quale sviluppare un'ideologia che permettesse di orientare la collera della popolazione hutu non contro l'oppressione coloniale, ma contro "i Tutsi feudali". Nel 1959, la giovane élite hutu lancerà, con l'appoggio del governo belga, quella che fu chiamata una "rivoluzione antifeudale". A partire dal 4 novembre 1959, 6.000 soldati della Forza pubblica congolese intervennero sotto la direzione del colonnello belga Guy Logiest per sostenere la "rivoluzione" contro i Tutsi.

L'ideologia razzista dei Tutsi esaltava la "superiorità dei Tutsi", quella degli Hutu la "lotta contro gli oppressori Tutsi". Entrambe sono state incoraggiate attivamente, se non create, dalle autorità coloniali belghe. In un contesto di profonda crisi economica, tali ideologie conducono ad un odio fanatico che permette l'assassinio senza pietà di civili disarmati, sia adulti che bambini.

Partita a poker tra Stati uniti e Francia

Durante gli anni 1950, gli Stati uniti incoraggiarono le correnti anticoloniali africane per allontanare le vecchie potenze coloniali europee e giocare un ruolo di primo piano in Africa. Dopo l'indipendenza del Congo, il Belgio si vide attribuire un ruolo di terza fascia.

La Francia, invece, riuscì a conservare in gran parte la sua influenza economica, militare e culturale. Durante la Guerra fredda, gli Stati uniti avevano ancora bisogno di un'alleanza coi francesi per lottare contro l'influenza sovietica in Africa, ma, a Guerra fredda finita, cambiarono strategia. Washington decise allora di rivendicare per sé la totale egemonia in Africa.

Tuttavia, i francesi non ci sentivano da quest'orecchio. "La Francia si considera una potenza mondiale, così si esprimeva il primo ministro Balladur alla televisione nazionale francese dopo il lancio dell'operazione Turquoise (8), a inizio luglio 1994. Ecco la sua ambizione, e mi auguro la possa mantenere. Il campo d'azione più importante della Francia è l'Africa, dove può sostenere un ruolo di prim'ordine per via di una lunga tradizione" (9). Agli occhi della Francia, le ex colonie belghe sono dei paesi francofoni che appartengono alla propria zona di influenza. Oppure, come dichiarato da un diplomatico francese: "Abbiamo bisogno di Mobutu per conservare lo Zaire e per tenere testa a Museveni, il presidente ugandese, che è considerato il cavallo di Troia degli interessi anglosassoni" (10).

Tra il 1983 e il 1987, anno della creazione del Fronte patriottico ruandese (FPR), i suoi futuri dirigenti occuperanno posizioni importanti nell'esercito e nei servizi segreti del presidente ugandese Museveni. Questo FPR farà del diritto al ritorno delle centinaia di migliaia di Tutsi fuggiti dal 1959 il primo punto del suo programma. Quando, nell'ottobre 1990, il FPR constatò che il governo ruandese di Habyarimana escludeva questo ritorno, inizierà una guerra, sotto lo sguardo benevolo di Museveni, che potrà a sua volta contare sull'approvazione silenziosa degli Stati uniti. In cambio, questi ultimi fecero affidamento sul FPR per cacciare dal Ruanda il regime filo-francese e portare così un primo significativo colpo alla "potenza mondiale francese in Africa".

Fin dall'inizio, il governo di Bill Clinton era perfettamente informato della portata spaventosa e del carattere di genocidio di tale conflitto (11). Gli Stati uniti però faranno di tutto per rinviare un intervento internazionale, fino a quando le truppe del FPR non avessero messo le mani sul paese.

Note

1. Harroy J-P., Rwanda : de la féodalité à la démocratie, 1984, Hayez.
2. De Standaard, 8 avril 1994.
3. Jef Maton, Développement économique et social du Rwanda entre 1980 et 1993. Le dixième décile en face de l'apocalypse, Faculteit economische wetenschappen Gent, octobre-novembre 1994.
4. Trade and Development report, 1993, United Nations.
5. Jef Maton, ibid.
6. Martens L., Kabila et la révolution congolaise, 2002, EPO.
7. Marcel d'Hertefelt, Les clans du Rwanda ancien, Musée de Tervuren, Série IN-8, n°70, 1971.
8. Con questa operazione, la Francia voleva costringere i resti del vecchio esercito ruandese, in stato di confusione totale, ad arrendersi. Concretamente, ciò ha condotto al fatto che 1,5 milioni di profughi, inquadrati dalle truppe e dalle milizie che avevano commesso dei massacri, si sono nei campi di profughi situati dell'altro lato della frontiera, nell'est del Congo.
9. The New York Times, 2 juillet 1994.
10. Libération, 5 juillet 1994.
11. Ferroggiaro W., The U.S. and the Genocide in Rwanda 1994. Information, Intelligence and the U.S. Response, le 24 mars 2004. Voir également : http://www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB117/

foto tratta da  :

giovedì 10 aprile 2014

Venezuela: Un appello per la pace di Nicolàs Maduro



Il documento che pubblichiamo in Italiano è un appello alla pace del Presidente Nicolas Maduro (eletto regolarmente dal popolo Venezuelano per ben due volte in un anno), la gente disinformata dai media di palazzo ha il diritto  di avere  idee più chiare su quello che sta succedendo in Venezuela.  Un Paese che da febbraio si trova aggredito da violenti gruppi fascisti, appoggiati e finanziati dal guerrafondaio impero YANQUI!!!  L'umanità, quella ancora  rimasta sana, deve reagire, non può permettere un 'altro Nicaragua, un altro Cile,...............

BASTA CON I CRIMINI DELL'IMPERO!!

                                                                                     By Sandino :
                             C.lo Bolivariano "Alessio Martelli" Alta Maremma


Venezuela: Un appello per la pace

Nicolás Maduro * | nytimes.com resistir.info
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

01/04/2014

Caracas, Venezuela

Le recenti proteste in Venezuela hanno fatto notizia nella stampa internazionale. Gran parte della copertura dei media stranieri ha distorto la realtà del mio paese e i fatti che riguardano gli eventi.

I venezuelani sono orgogliosi della loro democrazia. Abbiamo costruito un movimento democratico partecipativo popolare che ha fatto sì che sia il potere che le risorse siano equamente distribuiti tra la nostra gente.

Secondo le Nazioni Unite, il Venezuela ha costantemente ridotto la disuguaglianza: in questo momento ha la più bassa disparità di reddito della regione. Abbiamo ridotto la povertà enormemente - dal 49 per cento nel 1998 al 25,4 per cento nel 2012, secondo i dati della Banca Mondiale; nello stesso periodo, secondo le statistiche del governo, la povertà estrema è diminuita dal 21 per cento al 6 per cento.

Abbiamo creato programmi di assistenza sanitaria e di educazione universale di punta, gratuiti a livello nazionale per i nostri cittadini. Abbiamo raggiunto questi risultati in gran parte utilizzando i proventi del petrolio venezuelano.

Mentre le nostre politiche sociali hanno migliorato la vita dei cittadini in tutto, il governo ha anche affrontato importanti sfide economiche negli ultimi 16 mesi, tra cui l'inflazione e la carenza di beni di prima necessità. Continuiamo a trovare soluzioni tramite misure come il nostro nuovo sistema di cambi basato sul mercato, che è stato progettato per ridurre il tasso di cambio sul mercato nero. E stiamo monitorando le imprese per garantire che non creino disservizi ai consumatori o accaparramento dei prodotti. Il Venezuela ha anche lottato contro un elevato tasso di criminalità. Stiamo affrontando questo con la costruzione di una nuova forza di polizia nazionale, il rafforzamento della cooperazione tra polizia e comunità e una ristrutturazione del nostro sistema carcerario.

Dal 1998, il movimento fondato da Hugo Chávez ha vinto più di una dozzina di elezioni presidenziali, parlamentari e locali attraverso un processo elettorale che l'ex presidente americano Jimmy Carter ha definito "il migliore del mondo". Recentemente, il Partito Socialista Unito ha ricevuto un mandato schiacciante nelle elezioni municipali del dicembre 2013, vincendo in 255 comuni su 337.

La partecipazione popolare alla politica in Venezuela è aumentata considerevolmente nell'ultimo decennio. Come ex sindacalista, credo profondamente nel diritto di associazione e nel dovere civico di garantire che la giustizia prevalga sollevando le legittime preoccupazioni in manifestazioni e proteste pacifiche.

Le affermazioni che il Venezuela ha una democrazia carente e che le attuali proteste rappresentano il sentimento prevalente sono smentite dai fatti. Le proteste antigovernative sono portate avanti da parte di persone dei segmenti più ricchi della società che cercano di invertire i risultati del processo democratico di cui ha beneficiato la stragrande maggioranza del popolo.

Manifestanti antigovernativi hanno fisicamente attaccato e danneggiato cliniche, bruciata una università nello stato di Táchira e lanciato bottiglie molotov e pietre contro gli autobus. Hanno preso di mira anche altre istituzioni pubbliche lanciando sassi e torce contro gli uffici della Corte Suprema, la compagnia telefonica pubblica CANTV e l'ufficio del procuratore generale. Queste azioni violente hanno causato danni per molti milioni di dollari. Questo è il motivo per cui le proteste non hanno ricevuto alcun sostegno nei quartieri poveri e della classe operaia.

I manifestanti hanno un unico obiettivo: la cacciata anticostituzionale del governo democraticamente eletto.
I leader antigovernativi lo hanno chiaramente indicato all'inizio della campagna in gennaio, giurando di creare il caos nelle strade. Le proteste con critiche legittime per le condizioni economiche o il tasso di criminalità vengono sfruttate dai leader della protesta per fini violenti e antidemocratici.

In due mesi, si presume che 36 persone siano state uccise. Noi crediamo che i manifestanti siano direttamente responsabili di circa la metà delle morti. Sei membri della Guardia Nazionale sono stati colpiti e uccisi; altri cittadini sono stati uccisi mentre cercavano di rimuovere gli ostacoli posti dai manifestanti per bloccare il transito.
Un piccolissimo numero di personale delle forze di sicurezza è stato anche accusato di aver partecipato a violenze, a seguito delle quali diverse persone sono morte. Questi sono eventi molto spiacevoli, e il governo venezuelano ha risposto arrestando le persone sospettate. Abbiamo creato un Consiglio per i diritti umani per indagare su tutti gli incidenti relativi a queste proteste. Ogni vittima merita giustizia, e ogni responsabile - sia esso un sostenitore o un oppositore del governo - sarà ritenuto responsabile delle sue azioni.

Negli Stati Uniti, i manifestanti sono stati descritti come "pacifici", mentre del governo venezuelano si dice che li stia reprimendo violentemente. Secondo questa narrazione, il governo americano è schierato con il popolo del Venezuela; in realtà, è dalla parte dell'1 per cento che vuole far tornare indietro il nostro paese a quando il 99 per cento era escluso dalla vita politica e solo in pochi - comprese le compagnie americane - traevano vantaggio dal petrolio del Venezuela.

Non dimentichiamo che alcuni di coloro che hanno sostenuto l'usurpazione del governo venezuelano democraticamente eletto nel 2002 stanno guidando le proteste di oggi. Coloro che sono stati attivi nel golpe del 2002 hanno immediatamente sciolto la Corte Suprema e la legislatura e smantellato la Costituzione. Chi incita alla violenza e tenta azioni incostituzionali simili deve oggi affrontare la giustizia.

Il governo americano ha sostenuto il colpo di stato del 2002 ed ha riconosciuto il governo golpista nonostante il suo comportamento anti-democratico. Oggi, l'amministrazione Obama spende almeno 5 milioni di dollari l'anno per sostenere i movimenti di opposizione in Venezuela. Un progetto di legge che chiede un supplemento di 15 milioni di dollari per queste organizzazioni anti-governative è ora all'esame del Congresso. Il Congresso sta anche decidendo se imporre sanzioni al Venezuela. Mi auguro che il popolo americano, conoscendo la verità, deciderà che il Venezuela e la sua gente non meritano tale punizione, e inviterà i loro rappresentanti a non emanare sanzioni.

Ora è tempo di dialogo e di diplomazia. All'interno del Venezuela, abbiamo teso una mano all'opposizione. E abbiamo accettato le raccomandazioni dell'Unione delle nazioni sudamericane ad intraprendere colloqui mediati con l'opposizione. Il mio governo si è anche aperto al dialogo con il presidente Obama, esprimendo il nostro auspicio di scambiarsi gli ambasciatori. Noi speriamo che la sua amministrazione risponderà di conseguenza.

Il Venezuela ha bisogno di pace e di dialogo per andare avanti. Noi diamo il benvenuto a chiunque voglia sinceramente aiutarci a raggiungere questi obiettivi.

·      Nicolás Maduro è il presidente del Venezuela

                             www.resistenze.org

                  Immagine  da internet inserita da amministratore blog

venerdì 4 aprile 2014

Un attacco all'Iran è ancora allo studio del Pentagono. Israele si prepara a lanciare "il primo colpo"



Michel Chossudovsky | globalresearch.ca
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura

e Documentazione Popolare

Sotto il titolo "Netanyahu ordina all'IDF di prepararsi per un possibile attacco all'Iran nel corso del 2014", Haaretz conferma che una
guerra contro l'Iran è ancora presa in considerazione e che Israele si sta preparando attivamente a sferrare un primo colpo, nonostante i colloqui tra Occidente e Iran riguardanti il programma di armi nucleari iraniane.

L'IDF ha ricevuto ordini "per continuare a prepararsi per un possibile attacco indipendente" contro l'Iran. Inoltre, una considerevole somma di denaro dei contribuenti israeliani è stata destinata a questo rinnovato impegno militare:

Nonostante i colloqui tra Iran e Occidente, alti funzionari dicono che i membri del parlamento hanno stanziato 10 miliardi di shekel (2,9 milardi di dollari) all'IDF per preparare un eventuale attacco.

Secondo recenti dichiarazioni di alti ufficiali militari, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Moshe Ya'alon hanno ordinato all'esercito di continuare la preparazione per un possibile attacco militare contro gli impianti nucleari iraniani con un costo di almeno 10 miliardi di shekel (2,89 miliardi dollari) quest'anno, nonostante i colloqui tra l'Iran e l'Occidente.

I tre parlamentari hanno affermato che i rappresentanti dell'IDF hanno detto che l'esercito aveva ricevuto una direttiva chiara dai funzionari  governativi di rango politico - cioè Netanyahu e Ya'alon - di continuare a prepararsi per un eventuale attacco indipendente da parte di Israele sui siti nucleari iraniani, a prescindere dalle trattative attualmente in corso tra Iran e Occidente,

.... Fin dal raggiungimento dell'accordo provvisorio tra l'Iran e le sei potenze, Netanyahu ha sottolineato che Israele non si considera vincolato da esso....

Netanyahu ha alzato la sua retorica sulla questione iraniana, e sta di nuovo facendo implicite minacce di un eventuale attacco unilaterale israeliano sui siti nucleari iraniani.

Il [ministro della Difesa] Ya'alon ha recentemente indicato... di aver mutato visione e di essere ora propenso a sostenere un attacco unilaterale israeliano contro l'Iran, alla luce del fatto che secondo la sua opinione l'amministrazione Obama non lo effettuerà. (Barak Ravid, Netanyahu ordina all'IDF di prepararsi per un eventuale attacco all'Iran nel corso del 2014, Haaretz, 19 marzo 2014)
Il ruolo di Israele come forza militare delegata degli Stati Uniti: "Bombarderebbe per noi"

E' importante analizzare queste ultime minacce in un contesto più ampio. Essendo parte di un'alleanza militare, Israele non può scatenare da solo una guerra contro l'Iran. Questo è qualcosa di noto e riconosciuto dagli analisti militari.

Un attacco all'Iran fa parte di un'operazione coordinata guidata dal Pentagono, prevista fin dalla metà degli anni '90 come parte di una "sequenza" strategica nel teatro di operazioni. Durante l'amministrazione Clinton, il Comando Centrale USA (USCENTCOM) aveva formulato "nei piani del teatro di guerra" di invadere prima l'Iraq e poi l'Iran.

Israele è integrato nel "piano di guerra per le principali operazioni di combattimento" contro l'Iran formulato per la prima volta nel 2006 dal Comando Strategico degli Stati Uniti (USSTRATCOM). Nel contesto di operazioni militari su larga scala, un'azione militare unilaterale non coordinata di un partner della coalizione, vale a dire Israele, è da un punto di vista militare e strategico quasi impossibile. Israele è un membro di fatto della NATO. Qualsiasi azione da parte di Israele richiederebbe una "luce verde" da Washington.

Un attacco da parte di Israele (approvato da USA-NATO), tuttavia, potrebbe essere utilizzato come "il meccanismo di innesco", che scatenerebbe una guerra totale contro l'Iran, così come li ritorsioni da parte dell'Iran dirette contro Israele.

Ma se Israele non decide, può però essere utilizzato da Washington come delegato, cioè per sparare il primo colpo, senza che gli Stati Uniti siano ufficialmente coinvolti.

A questo proposito, ci sono indicazioni che Washington sta ancora prendendo in considerazione la prima opzione formulata durante l'amministrazione Bush Jr di un primo attacco (appoggiato dagli USA) da parte di Israele piuttosto che una vera e propria operazione militare a guida USA diretta contro l'Iran.

Mentre l'opzione del primo colpo da parte di Israele ufficialmente non ha la benedizione dell'amministrazione Obama essa, non illudiamoci, è stata per diversi anni parte dei piani di guerra del Pentagono.

Si chiama "guerra indiretta", laddove i delegati degli USA (compreso Israele) scatenano la guerra per conto dello Zio Sam e in collegamento con il Pentagono.

Questa strategia di coinvolgere gli alleati per "fare il lavoro sporco" ha caratterizzato parecchie imprese militari sponsorizzate dagli USA, comprese Afghanistan, Siria, Libia e in misura minore Iraq. In Siria, la guerra terroristica segreta era in gran parte condotta con il supporto di Arabia Saudita, Turchia e Qatar, in stretto coordinamento con gli Stati Uniti.
"Difendere Israele"

Supponendo che un attacco israeliano contro l'Iran – anche se condotto in stretto collegamento con il Pentagono e la NATO – fosse lanciato da Netanyahu, sarebbe presentato all'opinione pubblica come una decisione unilaterale di Tel Aviv. A quel punto potrebbe essere utilizzato da Washington per giustificare, agli occhi dell'opinione mondiale, un intervento militare più ampio degli Stati Uniti e della NATO (per motivi umanitari) al fine di "difendere Israele", piuttosto che di attaccare l'Iran. In virtù degli accordi di cooperazione militare esistenti, sia gli Stati Uniti che la NATO sarebbero "obbligati" a "difendere Israele" contro l'Iran.

Vale la pena notare, a questo proposito, che all'inizio del secondo mandato di Bush, l'ex vice presidente Dick Cheney ha definito senza mezzi termini, il ruolo di delegato di Israele.

Israele, per così dire, "bombarderebbe per noi", senza il coinvolgimento militare degli Stati Uniti e senza che noi esercitiamo pressioni su di loro "per farlo" (vedere: Michel Chossudovsky, Planned US-Israeli Attack on Iran, Global Research, 1 maggio 2005): Secondo Cheney:

"Una delle preoccupazioni della gente è che Israele potrebbe farlo senza che gli venga chiesto... Dato che l'Iran ha una politica dichiarata secondo cui il suo obiettivo è la distruzione di Israele, gli israeliani potrebbero decidere di agire per primi e lasciare il resto del mondo a preoccuparsi di ripulire il pasticcio diplomatico che seguirebbe", (Dick Cheney, citato da un'intervista di MSNBC, gennaio 2005)

L'intento politico di questa diabolica affermazione dell'ex vice presidente è chiarissimo: la distruzione di Israele equivale a un "danno collaterale".

Netanyahu è un fantoccio degli Stati Uniti. Un "primo colpo d'attacco" di Israele è stato preso in considerazione dagli strateghi militari statunitensi negli ultimi dieci anni. In caso di attacco, sarebbe Israele piuttosto che gli Stati Uniti a sostenere il peso maggiore della rappresaglia iraniana.

Il nostro messaggio al popolo di Israele: rimuovete Netanyahu, chiedete la pace in Medio Oriente, attuate un "cambio di regime" a Tel Aviv.



foto da rete inserita da amministatore blog 

giovedì 3 aprile 2014

Qatar :"mondiale della vergogna" Almeno 1.400 lavoratori sono già morti nei cantieri.


Il duro rapporto della Confederazione sindacale internazionale (CSI) rivela una verità conosciuta a tutti: il Qatar, amico di Sarkozy e Hollande, è il paese della schiavitù moderna con già 1.400 operai immigrati morti nei cantieri dei Mondiali 2022.

Quanto vale la vita di un operaio nepalese, quale è il valore dei diritti dell'uomo? Ben poco a giudicare dal riserbo dei nostri dirigenti sulla vergognosa situazione in Qatar, proprio loro che sono così pronti a indignarsi quando i propri interessi sono in gioco, in Ucraina, in Libia, in Siria o in Mali.

Attraverso un mal celato sistema di corruzione, il Qatar ha ottenuto nel 2010 l'organizzazione della Coppa del mondo di calcio 2022, con la complicità delle grandi potenze. Il governo Sarkozy poi aveva offerto su un piatto d'argento il Paris-Saint-Germain. [Al-Khelaifi, uomo d'affari qatariota e direttore di Al Jazeera Sports diventa nel 2011 il primo presidente non francese del club di calcio parigino, ndt]

Quattro anni dopo, il rapporto della CSI apre gli occhi anche agli ipocriti: "Il dossier contro il Qatar" rivela le violazioni dei diritti dei lavoratori ad un livello senza precedenti nell'organizzazione dei grandi avvenimenti sportivi, il disprezzo delle libertà e della vita degli operai.

Il Qatar conta 1,5 milioni di immigrati su 2 milioni di abitanti. Un esercito di schiavi al servizio di una casta dominante, nel paese dal Pil pro capite più elevato del mondo. Ecco una sintesi di ciò che i nostri dirigenti garantiscono in nome del "circo" moderno.

Il "kafala", un sistema contro i diritti dei migranti

Gli operai immigrati che lavorano nei cantieri sono privati di ogni libertà nel quadro del sistema "kafala": tutti gli operai immigrati sono sotto la responsabilità di un "kafil", un padrino che ha il controllo totale sui loro movimenti, nel paese come all'estero.

Il "kafil" può confiscare il passaporto dell'operaio - è il caso del 90% dei migranti - e privarlo di ogni tutela giuridica.

È allora alla mercé dei sinistri "campi di detenzione", dove sono ammassate parecchie centinaia di operai in uno stesso locale, sottomessi all'arbitrio, senza tutela legale né soddisfacimento dei bisogni più elementari.

Il lavoro forzato, la norma in Qatar

Il regime di lavoro forzato è la norma per i migranti in Qatar. Quasi tutti gli operai immigrati sono passati da una "agenzia di reclutamento" che addossa sui migranti nepalesi, indiani, filippini, indonesiani dei costi che vanno da 1.000 a 10.000 dollari a testa.

Questa situazione indebita i migranti a tassi esorbitanti. Miserabili al loro paese, col sogno di stipendi che permettano di fare vivere le loro famiglie in Nepal o in India, contraggono debiti che li costringono ad entrare in una situazione di dipendenza economica permanente coi loro padroni.

Gli stipendi sembrano attraenti - almeno 250 $ per i migranti asiatici - rispetto allo stipendio nel paese di origine. Le cifre però sono ingannevoli: una buona parte dello stipendio è trattenuta dal datore di lavoro per l'alloggio, il cibo, i trasporti, in un paese dove il costo della vita è comparabile a quello dei paesi ricchi. Senza dimenticare che un terzo di loro (il 34% degli operai, secondo un'inchiesta dell'Ispettorato del lavoro qatariota, (sic), non ha avuto alcuna retribuzione in questi ultimi mesi.

La schiavitù del XXI secolo è in Qatar!

Le condizioni di lavoro nei cantieri superano quelle delle peggiori miniere e fabbriche dell'Ottocento. Giornate dalle 8 alle 12 ore di lavoro, tra giugno e settembre, con quasi 50° all'ombra. E questi paiono quasi privilegiati in rapporto ai lavoratori domestici, quasi essenzialmente donne, che passano dal lavoro forzato alla schiavitù pura e semplice.

Non sono protette da alcuna legge, spesso private di cibo, di un alloggio decente, con salari bassissimi, sottoposte a percosse, torture, stupri. L'ambasciata dell'Indonesia accoglie ogni giorno da 5 a 10 lavoratori domestici in cerca di rifugio per sfuggire alla schiavitù domestica.

Le condizioni di vita non sono migliori per i migranti. Confinati nei "campi di lavoro", nei quartieri lontani dal resto della città, sconosciuti anche alle autorità internazionali. I loro alloggi, pagati con una decurtazione dal salario, non hanno nulla a che vedere con una "casa popolare": sono tuguri di una stanza in cui vivono otto o dieci operai, spesso senza condizioni sanitarie adeguate. Un numero di alloggi è dotato di acqua… salata per lavarsi o cucinare!

Per difendere migliori condizioni salariali, di lavoro, di vita, i migranti non hanno il diritto ad alcuna contrattazione collettiva, a nessuna organizzazione sindacale. Qualsiasi protesta potrebbe portare alla revoca della protezione del "kafil", mettendo così il lavoratore alla mercé dell'arbitrio delle autorità e impedendogli persino il ritorno.

In modo ancora più perverso, il governo del Qatar ha creato un "Comitato nazionale del Qatar per i Diritti umani", per presunte indagini sulle violazioni dei diritti umani. In realtà, questa organizzazione ha lo scopo di identificare i facinorosi e contestatori per isolarli e punirli.

1.400 lavoratori sono morti... 4.000 nel 2022?

Un conteggio dello spaventoso numero di morti è ancora impossibile da fare. La CSI parte dalle cifre delle morti denunciate dalle ambasciate nepalesi e indiane e che rappresentano la metà degli operai immigrati. Secondo l'ambasciata nepalese, 400 lavoratori migranti sono morti dal 2010 (191 nel 2013). Dal lato indiano, i morti sarebbero quasi 1.000, ad un ritmo l'anno scorso di 20 al mese. Solo per questi due paesi si parla di 1.400 morti in tre anni.

Secondo le stime molto prudenti della CSI, sono 4.000 gli operai immigrati che potrebbero finire vittime di questo sistema di schiavitù moderna, sapendo che 500mila operai supplementari dovrebbero essere portati in Qatar entro il 2018.

Rispetto agli altri grandi eventi mondiali, il confronto è impressionante: la coppa del mondo del 2010 in Sudfrica ha fatto 2 morti, quella in Brasile del 2014 ha fatto 7 morti, i mondiali in Russia hanno causato la perdita di 8 operai. Se paragonati ai già 1.400 morti in Qatar, viene il capogiro.

La complicità delle grandi imprese francesi!

Mentre il Qatar spenderà almeno 200 miliardi di dollari in infrastrutture - stadi, tgv, metropolitana, tram, centri commerciali, nuove città - è riluttante nel pagare qualche migliaio di euro per il milione e mezzo di schiavi moderni.

Tra i complici di questo sistema, le grandi imprese francesi che corteggiano l'emirato: Bouygues, Vinci, ma anche Keolis (controllata da SNCF) sono in lizza per i grossi contratti legati all'organizzazione del mondiale 2022.

La CSI propone di "fare pressione" sul Qatar per ottenere un ammorbidimento delle condizioni di sfruttamento, la normalizzazione delle relazioni con uno stato governato come una "monarchia assoluta", in cui sono negati i diritti più elementari dei lavoratori.

Il ruolo dei sindacalisti di classe, dei comunisti è un altro: è necessario avviare un vasto movimento per spingere al ritiro delle società francesi in Qatar, al boicottaggio dei campionati mondiali 2022 e delle relative attività in Qatar; alle sanzioni contro questo stato che finanzia dovunque nel mondo i gruppi più reazionari, le attività criminali contro il popolo arabo.

Il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni devono valere per il Qatar, l'inferno dei lavoratori. Non facciamo del miraggio dei "panem et circenses" moderni, la causa della violazione più obbrobriosa dei diritti dei lavoratori.
  Qatar, le « mondial de la honte » : au moins 1 400 ouvriers déjà morts sur les chantiers

Le rapport de la Confédération syndicale internationale (CSI) est accablant, il révèle une vérité connue de tous : le Qatar, ami des Sarkozy et Hollande, est le pays de l'esclavage moderne, 1 400 ouvriers immigrés sont déjà morts sur les chantiers du mondial 2022.

Combien vaut la vie d'un ouvrier Népalais, quelle est la valeur des droits de l'Homme ? Bien faible à voir la discrétion de nos dirigeants sur leur situation révoltante au Qatar, eux si prompts à s'indigner quand leurs intérêts sont en jeu, en Ukraine, en Libye, en Syrie ou au Mali.

Dans des conditions de corruption à peine dissimulées, le Qatar a obtenu en 2010 l'organisation de la Coupe du monde de football 2022, avec la complicité des grandes puissances. Tout comme le gouvernement Sarkozy lui avait offert sur un plateau le Paris-Saint-Germain.

Quatre ans après, le rapport de la CSI peut ouvrir les yeux des hypocrites : « Le dossier contre le Qatar » révèle des violations des droits des travailleurs à une échelle sans précédent dans l'organisation des grands événements sportifs, au mépris des libertés, de la vie des ouvriers.

Le Qatar compte 1,5 millions de migrants sur 2 millions d'habitants. Une armée d'esclaves au service d'une caste dominante, dans le pays au PIB par habitant le plus élevé du monde. Un résumé édifiant de ce que nos dirigeants cautionnent au nom des « jeux du cirque » modernes :

Le « kafala », un système de parrains contre les droits des migrants

Les ouvriers migrants travaillant sur les chantiers sont privés de toute liberté dans le cadre du système du « kafala » : tout ouvrier migrant est sous la responsabilité d'un « kafil », un parrain qui a contrôle total sur les mouvements du travailleurs, dans le pays et à l'extérieur.

Le « kafil » peut confisquer le passeport de l'ouvrier – c'est le cas de 90 % des migrants – le priver de toute protection juridique.

Il est alors à la merci des sinistres « camps de détention »,où sont entassés plusieurs centaines d'ouvriers dans une même pièce, soumis à l'arbitraire, sans conseiller juridique ni satisfaction des besoins les plus élémentaires.

Le travail forcé, la norme au Qatar

Le régime de travail forcé est la norme pour les migrants au Qatar. Quasiment tous les ouvriers immigrés sont passés par une « agence de recrutement » qui charge les migrants népalais, indiens, philippins, indonésiens de 1 000 à 10 000 $ par tête.

Cette situation endette les migrants à des taux exorbitants. Misérables au pays rêvant de salaires permettant de faire vivre leurs familles au Népal ou en Inde, ils héritent de dettes qui les forcent à rentrer dans une situation de dépendance économique permanente avec leurs employeurs.
Les salaires paraissent attractifs – au minimum 250 $ pour les migrants asiatiques – par rapport au salaire dans le pays d'origine.
Les chiffres sont trompeurs, une bonne partie du salaire est prélevé par l'employeur pour le logement, la nourriture, les transports, dans un pays où le coût de la vie est comparable à celui des pays riches.

Sans oublier qu'un tiers (34%) des ouvriers, selon une enquête de l'Inspection du travail qatari (sic) n'ont eu aucune rémunération ces derniers mois. 
 
L'esclavage au XXI ème siècle : c'est au Qatar que cela se passe !
 
Les conditions de travail sur les chantiers dépassent celles des pires mines, usines du XIX ème siècle. Des journées de 8 à 12 heures de travail, entre juin et septembre, sous près de 50 ° à l'ombre.

Et encore ceux-ci apparaissent presque comme des privilégiés face aux travailleurs domestiques. Composés essentiellement de femmes, celles-ci passent du travail forcé à l'esclavage pur et simple.
 
Elles ne sont protégées par aucune loi, souvent privés de nourriture, d'un logement décent, du moindre salaire, soumises aux coups, aux tortures, aux viols. L'Ambassade d'Indonésie accueille chaque jour 5 à 10 travailleurs domestiques, demandant un refuge pour fuir l'esclavage domestique.
Les conditions de vie ne sont pas meilleures pour les migrants. Cantonnés dans des « camps de travail », dans des quartiers à l'écart du reste de la ville, inconnus même des autorités internationales.
Payés par prélèvement sur salaire, leur logement n'a rien d'un
« logement social » : un taudis d'une pièce occupé par huit ou dix ouvriers, souvent sans les conditions sanitaires adéquates. Nombre de logements sont équipés d'eau … salée pour se laver ou faire la cuisine !

Pour défendre de meilleures conditions salariales, de travail, de vie, bien entendu les migrants n'ont droit à aucune négociation collective, aucune organisation syndicale.

Tout mouvement de protestation peut conduire à la levée de la protection du « kafil », mettant l'ouvrier à la merci de l'arbitraire des autorités, lui empêchant même le retour au pays.

Encore plus pervers, le gouvernement qatari a créé un « Qatar National human rights committee », soi-disant pour enquêter sur les violations des droits de l'Homme. En réalité, cet organisme vise à identifier les éléments perturbateurs, protestataire pour mieux les isoler et les punir. 
 
1 400 ouvriers morts … 4 000 d'ici 2022 ?
 
Effrayant, le décompte du nombre de morts est pourtant impossible à faire. La CSI part juste des chiffres de pertes révélés par les ambassades népalaises et indiennes, qui représentent la moitié des ouvriers migrants.

Selon l'ambassade népalaise, 400 ouvriers migrants sont morts depuis 2010 (dont 191 en 2013). Du côté indien, ce serait près de 1 000 ouvriers qui seraient morts, à un rythme de 20 travailleurs morts par mois pour l'an dernier. Pour deux pays seulement, cela fait 1 400 pertes en trois ans.

Selon les estimations très prudentes de la CSI, 4 000 ouvriers immigrés pourraient être victimes de ce système d'esclavage moderne, sachant que 500 000 ouvriers supplémentaires devraient être transportés au Qatar d'ici 2018.

Par rapport aux autres grands événements mondiaux, la comparaison est effarante : la coupe du monde 2010 en Afrique du sud a fait 2 morts, celle au Brésil en 2014 a fait 7 morts, celle en Russie a déjà causé la perte de 8 ouvriers. Comparés aux 1 400 déjà morts au Qatar, cela donne le vertige. 

 
Les grandes entreprises françaises du BTP complices !

Alors que le Qatar va dépenser au moins 200 milliards de $ en infrastructures – stades, TGV, métro, tramways, centres commerciaux, villes nouvelles – il rechigne à verser quelques milliers d'euros à près de 1,5 millions d'esclaves modernes.

Parmi les complices de ce système, les grandes entreprises françaises qui font la cour à l'émirat : Bouygues, Vinci mais aussi Keolis (filiale de la SNCF) sont en lice pour de gros contrats liés à l'organisation du mondial 2022.

La CSI propose de « peser » sur le Qatar pour obtenir un assouplissement des conditions d'exploitation au Qatar, la normalisation des relations avec un État gouverné comme une « monarchie absolue », niant les droits les plus élémentaires des travailleurs.

Le rôle des syndicalistes de classe, des communistes est autre : il faut lancer un vaste mouvement pour pousser au retrait des entreprises françaises du Qatar ; au boycott du mondial 2022, et des activités liées au Qatar ; aux sanctions envers cet Etat qui finance partout dans le monde les groupes les plus réactionnaires, des activités criminelles contre les peuples, arabes avant tout.

Boycott, désinvestissement, sanctions : c'est valable pour le Qatar, enfer des travailleurs, ne faisons pas des mirages des « pain et des jeux » modernes une caution pour la violation la plus ignominieuse des droits des travailleurs.


Il rapporto della CSI è disponibile qui: http://www.ituc-csi.org/ituc-special-report-the-case?lang=en

Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Resistenze.org
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