domenica 27 luglio 2014

IL 28 LUGLIO 1954 NASCEVA IL COMANDANTE HUGO CHAVEZ FRIAS (Documento redatto dalla rete Italiana di solidarietà con la rivoluzione Bolivariana)


Il 28 luglio del 1954 è nato a Sabaneta Hugo Rafael Chavez Frias, presidente del Venezuela, prematuramente scomparso il 5 marzo del 2013. Per certa stampa, un caudillo o un dittatore. Per i popoli del sud del mondo e per le classi popolari, un rivoluzionario e un grande statista, che ha incamminato il suo paese sulla via di un nuovo socialismo.
A 15 anni dalla prima vittoria elettorale di Hugo Chavez, il Venezuela ha realizzato importanti traguardi sociali e ha assunto un ruolo di primo piano negli organismi regionali del Latinoamerica: diritti economici sociali e culturali garantiti; partecipazione politica dei cittadini al controllo e alla gestione della cosa pubblica mediante il passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella partecipata: “Lo Stato – recita l'articolo 3 della costituzione – ha come finalità essenziale la difesa e lo sviluppo della persona e il rispetto della sua dignità, l'esercizio democratico della volontà popolare, la costruzione di una società giusta e amante della pace, la promozione della prosperità e il benessere del popolo e la garanzia della realizzazione di principi, diritti e doveri riconosciuti e istituiti da questa Costituzione. L'educazione e il lavoro sono i processi fondamentali per raggiungere detti fini”.
In un mondo in cui l'1% possiede almeno il 40% delle ricchezze globali, il Venezuela socialista ha optato per un impiego delle risorse volto alla giustizia sociale e al “massimo della felicità possibile”: anche per quelli a cui le classi dominanti riservano solo fatica e dolore. Una preziosa e concreta indicazione di rotta per queste nostre sponde, che attirano e inghiottono, mettendo gli ultimi contro i penultimi, secondo gli schemi del grande capitale internazionale. Negli ultimi anni, tra gli Stati uniti, il Canada e l'Europa, circa 10.000 persone si sono tolte la vita per i problemi causati dalla crisi economica capitalista.
Le ultime parole di Chavez, pronunciate dal letto di ospedale, sono state per l'Africa eternamente rapinata. Nella lettera inviata al III Vertice Africa-America latina e Caraibi, che si è svolto nella Guinea Equatoriale a febbraio del 2013, ha scritto: “La strategia neocoloniale è stata, dall'inizio del XIX° secolo, quella di dividere
le nazioni più vulnerabili del mondo per sottometterle a rapporti di dipendenza schiavistica. E' per questo che il Venezuela si è opposto, radicalmente e dall'inizio, all'intervento straniero in Libia, ed è per lo stesso motivo che il Venezuela reitera oggi il suo rifiuto più assoluto di ogni attività di ingerenza della Nato”. Con lo stesso spirito, il Venezuela di Nicolas Maduro ha levato con forza la voce contro l'aggressione israeliana all'eroico popolo di Palestina. Per decisione di Chavez, la Palestina riceve combustibile direttamente e a prezzi solidali.

Il Venezuela è ricco di petrolio e risorse naturali, che il governo socialista scambia con beni e servizi: da anni anche i poveri del Bronx ricevono combustibile mediante un progetto di solidarietà internazionale.
Per questo, e non per culto della personalità – incongruo per chi tenga a una effettiva emancipazione delle classi popolari – vogliamo celebrare il compleanno di Hugo Chavez con i migliori auguri per i nostri ideali, dicendo, insieme alla rivoluzione socialista bolivariana: Tutti siamo Chavez, siamo tutti Chavez. Moltiplicatori di coscienza e di rivoluzione.


Documento  redatto dalla rete  Italiana di solidarietà con la rivoluzione Bolivariana


venerdì 25 luglio 2014

disordine pianificato in Medio Oriente ed oltre :La diabolica alleanza tra il complesso industriale della difesa e della sicurezza e la lobby israeliana



due Stati  governati da criminali della peggior specie

Ismael Hossein-Zadeh * | counterpunch.org

Osservatori geopolitici delle turbolenze in Medio Oriente tendono ad addossare la colpa del caos che imperversa nella zona al presunto fallimento delle "incoerenti" "illogiche" o "contraddittorie" politiche degli Stati Uniti. Prove inconfutabili (alcune delle quali presentate in questo studio) suggeriscono, tuttavia, che in realtà il caos rappresenta il successo, non il fallimento, di quelle politiche architettate da chi trae beneficio dalla guerra e dalle operazioni militari nella regione, e oltre. Mentre le politiche americane nella regione mediorientale sono certamente irrazionali e contraddittorie dal punto di vista della pace internazionale, o anche dal solo punto di vista degli interessi nazionali degli Stati Uniti nel loro complesso, esse appaiono abbastanza logiche dal punto di vista dei beneficiari economici e geopolitici delle guerre e dei conflitti internazionali, vale a dire: (a) il complesso militare-industriale; (b) i militanti sionisti sostenitori del "grande Israele".

I semi del disordine sono stati piantati circa 25 anni fa, con il crollo del Muro di Berlino. Poiché il fondamento logico del grande apparato militare cresciuto durante gli anni della Guerra fredda era la "minaccia del comunismo", i cittadini statunitensi hanno celebrato il crollo del Muro come la fine del militarismo e l'alba dei "dividendi della pace", con riferimento ai benefici che, si sperava, molti avrebbero goduto negli Stati Uniti a seguito di un riorientamento di parte del bilancio del Pentagono verso i bisogni sociali non militari.

Ma mentre la maggior parte dei cittadini degli USA assaporavano i prospetti di quei "dividendi della pace" la cui venuta sembrava imminente, i potenti interessi coinvolti nell'aumento della spesa pubblica per ragioni militari e di sicurezza si sentivano minacciati. Non sorprendentemente, queste forze influenti si sono rapidamente mosse a fine di salvaguardare i loro interessi di fronte alla "minaccia della pace".

Per soffocare le voci che chiedevano i "dividendi della pace", coloro che traevano guadagno da guerra e militarismo cominciarono a ridefinire metodicamente le "fonti di pericolo" successive alla guerra fredda nel più ampio contesto del nuovo mondo multipolare, prospettiva che va ben oltre la tradizionale "minaccia sovietica" del mondo bipolare ancorato alla Guerra fredda. La "minaccia" degli "stati canaglia" dell'islam radicale e del "terrorismo globale" avrebbe dovuto essere identificata come il nuovo nemico, in sostituzione della "minaccia comunista dell'era sovietica".

Pubblicamente, la maggior parte delle riconsiderazioni del mondo dopo la Guerra fredda sono state sostenute dalle più alte gerarchie militari. Ad esempio, il generale Carl Vuno, capo di stato maggiore dell'Esercito degli Stati Uniti, così ha riferito ad una commissione della Camera dei rappresentanti nel maggio 1989: "Molto più problematica [di qualsiasi pericolo rappresentato dall'Unione Sovietica] è lo stato di pericolo che si sta sviluppando nel resto del mondo... In questo mondo sempre più multipolare, siamo di fronte alla possibilità di molteplici minacce provenienti da paesi e attori che stanno diventando sempre più sofisticati militarmente e politicamente più aggressivi" [2].

Il generale Colin Powell, allora capo dello stato maggiore unificato, allo stesso modo ha sostenuto davanti a una commissione del Senato che, nonostante il crollo dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti avrebbero avuto bisogno di continuare la crescita militare a causa di numerosi altri obblighi: "Con tutte queste sfide e le opportunità che si presentano alla nostra nazione, è impossibile per me credere che la smobilitazione o l'affossamento dell'esercito americano sia un percorso fattibile di azione per il futuro. Il vero 'dividendo di pace' è la pace stessa… La pace viene attraverso il mantenimento della forza" [3].

Mentre gli alti vertici militari, spesso indossando eleganti e sgargianti uniformi, hanno preso pubblicamente il centro della scena nella lotta contro il ridimensionamento del complesso militare-industriale, i militaristi civili, lavorando dentro e attorno al Pentagono insieme ai "think-tank" vicini ai "falchi", hanno tramato da dietro le quinte. Tra questi, l'allora segretario alla Difesa Dick Cheney, il suo sottosegretario Paul D. Wolfowitz, Zalmay Khalilzad, in seguito collaboratore di Wolfowitz e I. Lewis "Scooter" Libby, poi vice sottosegretario alla Difesa per la strategia. Questo gruppo di uomini, insieme ai loro opinionisti di riferimento e collaboratori (come Richard Perle, Douglas Feith, Michael Ladeen, Elliott Abrams, Donald Rumsfeld, William Kristol, John Bolton e altri) hanno lavorato diligentemente insieme al fine di scongiurare i tagli alla spesa militare del periodo successivo alla Guerra fredda. "Quello di cui avevamo paura era che la gente ad un certo punto dicesse: 'Portiamo tutte le truppe a casa e abbandoniamo le nostre posizioni in Europa'", ricordava Wolfowitz in un'intervista [4].

Sebbene questi organizzatori militari sono stati ufficialmente affiliati al Pentagono e/o all'amministrazione Bush (padre), essi anno altresì strettamente collaborato con un certo numero di associazioni e gruppi di interesse sciovinisti come l'Istituto per l'iniziativa americana [American Enterprise Institute], il Progetto per un nuovo secolo americano [Project for the New American Century] e l'Istituto ebraico per gli affari di sicurezza nazionale [Jewish Institute for National Security Affairs], creati a servizio sia della lobby degli armamenti che della lobby di Israele o di entrambi. Anche uno sguardo superficiale ai dati identificativi di questi think-tank - la loro appartenenza, le loro fonti finanziarie, le loro strutture istituzionali e altro - mostra che gli stessi sono stati creati per agire essenzialmente sui fronti istituzionali e per camuffare le incestuose relazioni politiche e di affari tra il Pentagono, i suoi principali contraenti, i vertici militari, la lobby israeliana e altre analoghe forze scioviniste dentro e attorno al governo [5].

Con uno sforzo attentamente calcolato al fine di ridefinire il mondo post-Guerra fredda come un mondo "più pericoloso", e di conseguenza predisporre una nuova "Strategia di sicurezza nazionale" [National Security Strategy] per gli Stati Uniti, questo team di pianificatori militari e think-tank militaristi ha prodotto un nuovo documento geopolitico militare per il periodo immediatamente successivo al crollo dell'Unione Sovietica, documento poi conosciuto come "Guida alla pianificazione della difesa" [Defense Planning Guidance] o "Strategia di difesa per gli anni '90" [Defense Strategy for the 1990s.]. Il documento, presentato alla Casa bianca nei primi anni 1990 ancor prima che al Congresso, era incentrato sul tema dei "punti turbolenti imprevedibili del Terzo Mondo" come nuove fonti di attenzione per la potenza militare degli Stati Uniti nell'era successiva alla guerra fredda: "Nella nuova era, prevediamo che il nostro potere militare resterà un sostegno essenziale per l'equilibrio globale… che le più probabili occasioni per l'utilizzo delle nostre forze militari possono non interessare l'Unione Sovietica mentre potrebbero verificarsi nel Terzo Mondo, dove potrebbero essere richieste nuove capacità ed approcci" [6].

Per rispondere alle "turbolenze nelle regioni più attive", la nuova situazione richiedeva una strategia di "deterrenza discriminata", una strategia militare che avrebbe dovuto "contenere e sedare i conflitti regionali o locali nel Terzo Mondo con velocità fulminea e travolgente efficacia prima che sfuggano di mano". Nel mondo successivo alla Guerra fredda, delle "molteplici fonti di minaccia", gli Stati Uniti dovevano essere pronti a combattere guerre di "bassa" e "media intensità". I concetti di bassa o media intensità non si riferiscono al livello di potenza di fuoco e alla violenza impiegata, ma alla scala geografica dei conflitti che va da una guerra totale alla più piccola guerra regionale capace di turbare il commercio internazionale o paralizzare i mercati globali.

La "Strategia di difesa per gli anni '90" ha affrontato anche l'argomento del mantenimento e dell'espansione della "profondità strategica" dell'America, un termine coniato dall'allora segretario alla Difesa Dick Cheney. "Profondità strategica" conteneva una connotazione geopolitica, significando che, all'indomani del crollo del Muro di Berlino, gli Stati Uniti dovessero estendere la loro presenza globale - in termini di basi militari, installazioni di ascolto e/o di intelligence e tecnologia militare - in aree precedentemente neutrali o sotto l'influenza dell'Unione Sovietica.

Le indicazioni politiche di queste profezie che si autoavverano erano inconfondibili: avendo così interpretato (e successivamente creato) il mondo successivo alla Guerra fredda come un luogo pieno di "molteplici fonti di minaccia per l'interesse nazionale degli Stati Uniti", i potenti beneficiari del budget del Pentagono sono riusciti a mantenere la spesa militare sostanzialmente ai livelli della Guerra fredda. I fautori di questo perdurante militarismo "si muovevano con notevole velocità per garantire che il crollo [dell'Unione Sovietica] non incidesse sul bilancio del Pentagono o sulla nostra 'posizione strategica' nel globo che avevano presidiato in nome dell'anti-comunismo" [7].

Per realizzare la così delineata "Strategia di sicurezza nazionale" nel mondo dopo la Guerra fredda, gli organizzatori dei piani militari americani hanno avuto bisogno di pretesti, il che ha significato spesso inventare o fabbricare nemici. I beneficiari dei dividendi di guerra a volte scoprirono "nemici e minacce esterne" per definizione, "decidendo unilateralmente quali azioni in tutto il mondo costituiscono atti di terrorismo", o qualificarono arbitrariamente alcuni paesi come "sostenitori del terrorismo" come ammise Bill Christinson, ex consulente CIA ormai in pensione [8].

Essi crearono anche attriti internazionali per mezzo di politiche insidiose volte a provocare rabbia e violenza, giustificando così la guerra e la distruzione, le quali attiveranno ulteriori atti di terrore e violenza, in modo da creare un circolo vizioso. Naturalmente, l'obiettivo della nefasta forza motrice che muove questa strategia autoavverante della guerra e del terrorismo è di mantenere gli elevati dividendi del business della guerra. Il defunto Gore Vidal ha satiricamente caratterizzato questa malvagia necessità dei signori della guerra e del militarismo di venire costantemente a contatto con nuove minacce e nemici come un "club del nemico del mese: ogni mese ci troviamo di fronte un nuovo nemico orrendo che dobbiamo colpire prima che ci distrugga" [9].

Una piccola guerra qui, una piccola guerra là, una guerra di bassa intensità nel paese
x, e una di media intensità nel paese y - cinicamente descritte come "guerre controllate" - divengono strategie in grado di mantenere alti gli stanziamenti militari che scorrono nelle casse del blocco di interessi economici militari-industriali, senza causare un conflitto importante o di scala mondiale che possa paralizzare del tutto i mercati mondiali.

In questo contesto - il crollo dell'Unione Sovietica, la "minaccia dei dividendi della pace" portata agli interessi del complesso militare-industriale e la conseguente necessità dei signori dei dividendi di guerra di trovare surrogati della "minaccia comunista" del tempo della Guerra fredda - il governo degli Stati Uniti affrontò gli attacchi efferati dell'11 settembre come un'opportunità per la guerra e le aggressioni e ciò non avrebbe dovuto essere una sorpresa per chiunque avesse familiarità con i malvagi bisogni del militarismo. Gli attacchi mostruosi sono stati trattati non come crimini ma come "guerra all'America". Una volta stabilito che gli Stati Uniti erano "in guerra", la crescita della spesa militare e le aggressioni militari imperialiste seguirono di conseguenza. Come ha ammesso Chalmers Johnson, alla fine la tragedia del 11 settembre è "giunta come la manna dal cielo per una amministrazione determinata a far decollare i bilanci militari" [10].

I campioni delle guerre a prelazione statunitense avevano già etichettato come "ostili" governi come quelli al potere in Iran, Iraq, Siria, Libia e Corea del Nord e come stati canaglia e/o sostenitori del terrorismo che richiedevano un "cambio di regime". Prima degli attacchi del 11 settembre, tuttavia, tali etichette demonizzatrici non erano evidentemente sufficienti a convincere il popolo americano a sostenere tali guerre e proprio la tragedia del 11 settembre è servita ai militaristi da pretesto giustificativo. Per tale motivo, il cambiamento di regime in Iraq, sarà seguito da cambiamenti simili di regimi "ostili" in molti altri paesi della regione e di tutto il mondo.

Proprio come i beneficiari dei dividendi di guerra ed il complesso militare-sicuritario-industriale, vedono la pace e la stabilità come ostile ai loro interessi, così anche i militanti sionisti sostenitori del "Grande Israele" percepiscono la pace tra Israele e i suoi vicini arabi- palestinesi come pericolo per il loro obiettivo di ottenere il controllo sulla "terra promessa". La ragione di questa paura della pace è che, secondo una serie di risoluzioni delle Nazioni Unite, la pace significherebbe il ritorno di Israele ai suoi confini pre-1967, cioè il ritiro dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza. Ma poiché i sostenitori del "Grande Israele" non sono disposti a ritirarsi da questi territori occupati, essi sono quindi terrorizzati dalla pace, di qui i loro continui tentativi di sabotare gli sforzi di pacificazione ed i negoziati.

Per lo stesso motivo, questi sostenitori visualizzano la guerra e i conflitti (o, come ha detto David Ben-Gurion, uno dei principali fondatori dello Stato di Israele, "l'atmosfera rivoluzionaria") come opportunità che favoriscono l'espulsione dei palestinesi, la semplificazione geografica della regione, ai fini di un'espansione del territorio di Israele. "Quello che è inconcepibile in tempi normali - sottolineava Ben-Gurion - è possibile in tempi rivoluzionari; e se in questo momento l'occasione è persa e ciò che è possibile non viene portato avanti, tutto un mondo è perduto" [11]. Facendo eco al malvagio pensiero per cui lo scioglimento e la frammentazione degli Stati arabi in un mosaico di gruppi etnici è possibile solo in condizioni di guerra e di conflitti socio-politici, il noto falco Ariel Sharon ha altresì sottolineato, il 24 marzo 1988, che "se la rivolta palestinese fosse continuata, Israele avrebbe dovuto fare la guerra ai suoi vicini arabi. La guerra - ha dichiarato - avrebbe fornito la 'circostanza' per l'espulsione di tutta la popolazione palestinese della Cisgiordania e di Gaza e anche dall'interno del territorio di Israele propriamente detto" [12].

Il punto di vista che la guerra avrebbe "offerto la circostanza" per l'espulsione dei palestinesi dai territori occupati si fondava sull'aspettativa che gli Stati Uniti avrebbero condiviso quest'idea e avrebbero di conseguenza sostenuto le pretese di espansione di Israele nel caso in cui fosse contemplata una guerra. L'aspettativa non è affatto stravagante o inusuale, dal momento che chi trae vantaggio dalla guerra e dalla spesa militare degli Stati Uniti rafforza tale aspettativa e volentieri ne fa un obbligo, di qui l'alleanza di fatto tra i gruppi di interesse economico militare-industriale e la lobby ebraica.

Poiché gli interessi di queste due potenti lobby convergono sul fomentare la guerra e il conflitto politico in Medio Oriente, una sinistra e potente alleanza è stata forgiata tra loro, e ciò è inquietante perché la possente macchina da guerra degli Stati Uniti è ora completata dalle quasi impareggiabili capacità di pubbliche relazioni dei falchi della lobby pro-Israele negli Stati Uniti. La convergenza e/o interdipendenza degli interessi del complesso militare-industriale e quelle del sionismo militante sulla guerra e il conflitto politico in Medio Oriente è al centro del ciclo perpetuo di violenza nella regione.

L'alleanza tra il complesso militare-industriale e la lobby israeliana non è ufficiale ed è un'alleanza di fatto; essa è sottilmente forgiata attraverso una complessa rete di potenti "think tank" militaristi come: l'Istituto per l'iniziativa americana [The American Enterprise Institute], il Progetto per un nuovo secolo americano [Project for the New American Century], il Comitato America-Israele per gli affari pubblici [America Israel Public Affairs Committee], l'Istituto per la ricerca sui media in Medio Oriente [Middle East Media Research Institute], l'Istituto di Washington per la politica del Vicino Oriente [Washington Institute for Near East Policy], il Forum per il Medio Oriente [Middle East Forum], l'Istituto nazionale per le politiche pubbliche [National Institute for Public Policy], l'Istituto ebraico per gli affari di sicurezza nazionale [Jewish Institute for National Security Affairs] e il Centro per le politiche di sicurezza [Center for Security Policy]

Nel periodo immediatamente successivo alla guerra fredda, questi think tank militaristi con i loro operatori dentro e attorno al governo hanno pubblicato una serie di documenti politici, che chiaramente e con forza hanno sollecitato l'adozione di piani di cambiamento dei confini, piani per il cambiamento demografico e per il cambiamento di regime in Medio Oriente. Ad esempio, nel 1996, un influente think tank israeliano, l'Istituto per gli studi avanzati strategici e politici [The Institute for Advanced Strategic and Political Studies], ha promosso e pubblicato un documento politico intitolato "Un taglio netto: Una nuova strategia per la messa in sicurezza del Regno", il quale ha sostenuto che il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu "dovrebbe 'dare un taglio netto' con il processo di pace di Oslo e riaffermare il diritto di Israele in Cisgiordania e Gaza. Si presentava un piano in base al quale Israele avrebbe 'plasmato il suo ambiente strategico', iniziando con la rimozione di Saddam Hussein e l'installazione di una monarchia hashemita a Baghdad, come primo passo verso l'eliminazione dei governi anti-israeliani in Siria, Libano, Arabia Saudita e Iran" [13].

In una "Lettera aperta al Presidente" (Clinton), datata 19 febbraio 1998, alcuni think tank militaristi ed altri soggetti rappresentanti il complesso militare-industriale e la lobby israeliana, hanno raccomandato "una strategia politica e militare globale per abbattere Saddam e il suo regime". Tra i firmatari della lettera vi sono i seguenti personaggi: Elliott Abrams, Richard Armitage, John Bolton, Douglas Feith, Paul Wolfowitz, David Wurmser, Dov Zakheim, Richard Perle, Donald Rumsfeld, William Kristol, Joshua Muravchik, Leon Wieseltier e l'ex deputato Stephen Solarz [14].

Nel settembre 2000, un altro think tank militarista, chiamato Progetto per il nuovo secolo americano [PNAC, Project for the New American Century], ha pubblicato un rapporto, intitolato "Ricostruire le difese dell'America: strategia, forze e risorse per un nuovo secolo" che ha raffigurato esplicitamente un ruolo imperiale degli Stati Uniti in tutto il mondo. In esso si dichiara, per esempio: "Gli Stati Uniti hanno per decenni cercato di svolgere un ruolo più permanente nella sicurezza regionale del Golfo [Persico]. Mentre il conflitto irrisolto con l'Iraq fornisce una giustificazione immediata, la necessità di una presenza sostanziale delle forze americane nel Golfo trascende la questione del regime di Saddam Hussein". I sostenitori del rapporto includevano Richard Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Lewis Libby e William Kristol, che era anche co-autore del rapporto [15].

L'influente Istituto ebraico per gli affari di sicurezza nazionale [JINSA, Jewish Institute for National Security Affaire], ha anche occasionalmente rilasciato dichiarazioni e documenti politici che hanno fortemente sostenuto "cambiamenti di regime" in Medio Oriente. Il suo consigliere Michael Ladeen, il quale è stato anche ufficiosamente consulente dell'amministrazione Bush sulle questioni mediorientali, ha apertamente affermato che era giunta l'era della "guerra totale" indicando che gli Stati Uniti dovrebbero espandere la loro politica di "cambiamenti di regime" in Iraq così come in altri paesi della regione, come l'Iran e la Siria. "Nel suo sostegno fervente per la linea dura, a favore degli insediamenti e dei coloni, delle politiche anti-palestinesi in stile Likud in Israele, l'Istituto essenzialmente ha raccomandato che 'il mutamento di regime' in Iraq dovrebbe essere solo l'iniziale pedina del domino per rovesciare a cascata l'attuale domino in Medio Oriente" [16].

In breve, vi sono prove schiaccianti (e inconfutabili) che il disordine che imperversa in Medio Oriente, Nord Africa, Europa Orientale ed Ucraina non è causa delle "errate" politiche degli Stati Uniti e dei loro alleati, come molti critici e commentatori tendono a sostenere. E' piuttosto un effetto voluto delle politiche premeditate e accuratamente costruite e di volta in volta perseguite da una diabolica alleanza tra il complesso degli interessi economici militari-industriali e la lobby israeliana nel mondo post Guerra fredda.
* Ismael Hossein-Zadeh è professore emerito di Economia alla Drake University
Note

[1] Extensive excerpts from my book, The Political Economy of U.S. Militarism, especially from chapters 4 and 6, are used in this essay.
[2] Quoted in Sheila Ryan, "Power Projection in the Middle East," in Mobilizing Democracy, edited by Greg Bates (Monroe, Maine: Common Courage Press, 1991), p. 47.
[3] Ibid., p. 46.
[4] James Mann, "The True Rationale? It's a Decade Old," Washington Post, Sunday (7 March 2004), page B02.
[5] For a detailed exposition of this dubious relationship see Ismael Hossein-zadeh, The Political Economy of U.S. Militarism (Palgrave-Macmillan 2007), chapter 6.
[6] Chalmers Johnson, The Sorrows of Empire (New York, NY: Metropolitan Books, 2004), pp. 20-21.
[7] Ibid., p. 20.
[8] Bill Christison, "The Disastrous Foreign Policies of the United States," Counterpunch.org (9 May 2002), 


http://www.counterpunch.org/christison0806.html
[9] Gore Vidal, Perpetual War for Perpetual Peace: How We Got To Be So Hated (New York: Thunder's Mouth Press/Nation Books, 2002), pp. 20-1.
[10] Chalmers Johnson, The Sorrows of Empire (New York, NY: Metropolitan Books, 2004), p. 64.
[11] Quoted in Stephen J. Sniegoski, "The War on Iraq: Conceived in Israel,"
http://vho.org/tr/2003/3/Sniegoski285-298.html.
[12] Ibid.
[13] Ibid.


[14] Ibid.
[15] Ibid.
[16] William D. Hartung, How Much Are You Making on the War, Daddy? (New York: Nation Books, 2003), p.109.








Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare




Immagini da internet  inserite da amministatore Blog corrente

mercoledì 16 luglio 2014

CON UN GOLPE DE ESTADO SE INICIÓ NUESTRA INDEPENDENCIA (discurso del Embajador Julian Isaias Rodriguez Diaz)




203º Aniversario de la Declaración de Independencia
Julián Isaías Rodríguez Díaz


...tal como diría Bolívar... ...la independencia fue el único bien que se adquirió, pero a costa de todos los demás.

foto  repertorio Ambasciatore Julián Isaías Rodríguez Díaz con Chavez
Intereses de clase, traiciones, ambiciones de lucro y complicidad con imperios poderosos se aliaron contra el pueblo. Es por ello que hoy los venezolanos nos sentimos obligados con nuestros libertadores a completar la obra liberadora y a construir la libertad definitiva.

Aún hoy en Venezuela existen individualidades, partidos y conspiradores  dispuestos a actuar como Cayo Casio Longino y como aquel célebre usurero de Roma, llamado Marco Bruto, quienes en el 44 a. C., asesinaron a Julio César.

En Venezuela hay aún mucho Cayo y los Brutos se cuentan por montones. Unos y otros se han propuesto asesinar el chavismo plebeyo y al presidente de esa gentuza que, por una casual coincidencia, es nada más y nada menos, que el presidente de todos los venezolanos.

...muy distante de aquel senado italiano del 44 a. C., que si valía la pena disolver por dictar la Ley Marcial contra Julio César, la oposición venezolana ha concretado un plan magnicida para asesinar al presidente de Venezuela, y, créanme, veo pocas distinciones entre la oposición terrorista y la otra.

El llamado sector democrático de esa oposición juega con las dos caras del Jano romano y ya uno no sabe si verdaderamente son, o no, partidarios de la violencia.

No es concebible, no es legal, ni políticamente ético una oposición que, por haber perdido un proceso electoral, asuma los derroteros de la violencia y el desconocimiento del estado de derecho que, por lo demás, ha sido quien la creó.

...se les ha llamado a estar a la altura de las circunstancias de un país, que también es de ellos,  a aceptar sus culpas y a deslindarse de la violencia, pero han preferido la simulación, la impostura y la hipocresía. Con insinceridad de farsantes juegan a estar con Dios y con el diablo.

La oposición, señoras y señores, es en cualquier sitio del planeta es una institución inherente a la democracia. Cualquier  oposición es inseparable de aquel régimen político donde la soberanía la ejerce  el pueblo. Es esa oposición auténticamente democrática la que, en Venezuela, añoramos desde el mismo día en que Hugo Rafael Chávez ganó las elecciones en 1998 y las 18 siguientes.

...la emancipación de España no nos liberó totalmente de los imperios. Después de esa independencia, otros imperios nos desunieron y nos arrancaron parte nuestras riquezas. Si, amigos y amigas, nos volvieron a colonizar y nos sometieron con la complicidad de algunos partidos y de muchas oligarquías y de unos dirigentes inconsecuentes.

Se han necesitado, ya no 300 años, como dijo Bolívar, sino más de 500 años como dijo Chávez, para dar las viejas y nuevas batallas por la independencia antes y ahora por la liberación social, económica, diplomática e intelectual de nuestros pueblos.

La democracia, amigas y amigos no es solo nacional. También debe ser internacional, y las agresiones del llamado mundo civilizado y de todos los imperios no se expresan sin embargo  democráticamente, sino a través del uso ilegal de un poderío militar que no tiene ética, ni tribunales, ni jueces que lo juzguen, ni instancias internacionales que se atrevan a condenarlo.  

Quienes creemos en una real y verdadera democracia, no podemos llamar a este monstruo que expresa su democracia de ese modo, sino con el nombre de estados camorristas o estados forajidos. No podemos calificarlos sino de estados fascinerosos, que pretenden utilizar el miedo para acosar la dignidad de los pueblos supuestamente frágiles.

...nuestro 5 de julio está a la orden de todos ustedes. Nosotros lo hemos convertido en un hecho dialéctico que se repite y se renueva. Con él construiremos patria y los que quieran patria que nos acompañen y nos refuercen solidariamente, para ayudarnos y recordarnos permanentemente que nuestro proyecto no debe desviarse de la ruta que tenemos trazada hacia  el socialismo. 

domenica 13 luglio 2014

Palestina, tu sei un modello nella tua tragedia e nel tuo eroismo


di Bassam Saleh

La Palestina occupata è la testimonianza viva delle ripetute violazioni delle leggi internazionali e dei diritti umani. È il simbolo del fallimento della comunità internazionale e della sua impotenza ad attuare le proprie risoluzioni e promesse.

La questione palestinese non è una questione degli arabi e tantomeno dei musulmani, essa è la questione dell’umanità, impotente nel trovare una soluzione giusta e globale ormai da più di 66 anni, cioè da quando la comunità internazionale ha tollerato lo stupro di quella terra e la cacciata dei suoi nativi. Da quella data il popolo palestinese non conosce pace, e non la conoscerà finché non saranno riconsiderati i suoi inalienabili diritti. Non importa quanto a lungo dovrà aspettare.

Quello che sta vivendo Gaza in questi giorni di crimini contro l’umanità è divenuto, purtroppo, normalità; crimini che colpiscono soprattutto i giovani in tenera età, perché essi costituiscono fonte di preoccupazione costante e permanente per l’occupante usurpatore; crimini commessi nella distruzione sistematica dei beni di prima necessità per la vita, come i terreni agricoli; l’embargo/assedio imposto illegalmente, come l’occupazione stessa, sono punizioni collettive che puntano al genocidio di massa.
Governo e militari di  Israele studiano  i piani di  come sterminare il popolo palestinese
Massacri che si ripetono, e che, ogni volta, saranno più violenti e più criminali di prima. I palestinesi a parole minacciano vendetta; con loro gli arabi e la parte più cosciente del mondo occidentale riprendono i discorsi di condanna e solidarietà, a parole. E poi gli sforzi per una tregua riescono a calmare gli animi e a scrollare di dosso la polvere della distruzione, però senza la possibilità di recuperare le perdite, soprattutto quelle umane. E gli scenari si ripetono sotto forma di terrificanti incubi.

Davanti all’indifferenza mondiale e alla stanchezza degli arabi, i palestinesi non si sono stancati di pretendere, e non rinunciano a reclamare, i propri diritti stuprati, sia a Gaza assediata sia nella Cisgiordania circondata e assediata dagli insediamenti e dai coloni, sia nei territori occupati nel 1948, dove gli abitanti originari/nativi vivono come minoranza con pochi diritti, sia nella diaspora, dove la condizione mortale di profughi non cancella l'aspettativa del ritorno.

Dunque la Palestina è un modello di illegalità, anzi, un modello del destino di chi subisce la legge vigente dello stupro, e la non attuazione del diritto all’autodeterminazione. Non importa se questo è il risultato di una occupazione, o del potere che porta a uccidere, distruggere e sfollare popolazioni intere, o di un stupro dei diritti, che tappa le bocche per impedire alla gente di difendere i propri diritti. Comunque rimane una violazione del diritto, e come ogni violazione non avrà altro esito che il fallimento.

La compiacenza, anche una sola volta, con lo stupro della legge, porterà a un meccanico ripetersi di stupri e indulgenze.

Per questo siamo con la Palestina, perché siamo con il diritto, e per ripristinarlo; in secondo luogo, siamo con noi stessi perché i nostri diritti sono stati usurpati, e sarà vano che ci sforziamo di costruire la pace nella regione e raggiungere la sicurezza per i suoi popoli, se non viene riconosciuto il diritto ai proprietari in Palestina, o fuori della Palestina, e ovunque.

Palestina, sei un modello nella tua tragedia e nel tuo eroismo, nella resistenza dei tuoi figli; tu sei la prova per una soluzione tanto sognata, anche se sembra troppo lontana.
Scusaci, Palestina, per la nostra temporanea inadeguatezza e impotenza. Scusaci, ma, stanne certa, il tuo popolo non ti abbandonerà e anche da questa tragedia ritroverà nuova linfa per la lotta fino alla vittoria, finché la tua terra non sarà libera e palestinese.

 

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giovedì 10 luglio 2014

Yul Jabour: Oggi più che mai necessario costruire un'istanza di direzione collettiva della rivoluzione/Yul Jabour: Se requiere “hoy más que nunca” construir “una instancia de dirección colectiva” de la Revolución




07/07/2014

 Il PCV non ha posto la questione di ritirarsi dal Grande Polo Patriottico
"La lealtà si concepisce applicando e esercitando la critica e l'autocritica", segnala il dirigente del Partito Comunista del Venezuela, il quale osserva che il socialismo "è la maggiore e migliore democrazia, implica la maggiore e migliore partecipazione".


Caracas, 07/07/2014, Tribuna Popular, Correo del Orinoco: 

 
Come ogni lunedì, il Partito Comunista del Venezuela (PCV) tiene una conferenza stampa nella quale esprime le sue opinioni, le sue proteste, i suoi suggerimenti. Come membri del Grande Polo Patriottico, i dirigenti del gallo rosso - che insistono nell'assumere la critica come un esercizio tra rivoluzionari e rivoluzionarie - hanno più volte fatto osservazioni non solo a favore di un governo collettivo, ma contro la politica dell'Esecutivo; inoltre hanno posto la necessità di conoscere le misure economiche già concordate con il settore imprenditoriale e quelle che il Presidente vuole attuare in questo momento.

Il deputato Yul Jabour, membro dell'Ufficio Politico del PCV, conferma che il suo partito continuerà a esercitare il diritto di critica ma che indipendentemente che siano ricevute oppure no, non si ritirerà dal Grande Polo Patriottico. Yul Jabour ribadisce che l'attuale processo resta un processo antimperialista e conferma l'impegno dei comunisti venezuelani nella lotta contro il grande capitale internazionale.

Un alleato "scomodo"
- Il PCV è un alleato scomodo?
 
Sì, è davvero scomodo perché il PCV è un partito impegnato nelle lotte di classe del popolo lavoratore, impegnato nella difesa dei diritti dei lavoratori, determinato nella lotta contro il grande capitale internazionale e l'imperialismo statunitense. In diversi momenti del processo rivoluzionario il Partito Comunista ha esercitato il principio della critica e dell'autocritica per avvertire degli errori che dal nostro punto di vista a volte vediamo, e, naturalmente, per porre l'attenzione su alcune omissioni in atto che ci allontanano dall'obiettivo strategico della liberazione nazionale del popolo e della costruzione del socialismo.


-
Parla di omissioni. In questo momento potrebbe commentare alcune omissioni o quelle che il PCV percepisce come tali?
 
Sì, certo: l'omissione dell'istanza della direzione collettiva del processo rivoluzionario. E' una omissione non solo in questo momento, ma che ha caratterizzato diverse fasi del processo rivoluzionario e che, nonostante i nostri reiterati richiami in momenti diversi e nonostante gli annunci da parte del Governo di costruire una istanza di questo tipo, fino ad oggi non si è raggiunto nulla.

- Perché? Cosa prevede?
 
Non è escluso che si possa fare. Nell'ultima riunione che ha avuto il Grande Polo Patriottico con il Presidente Nicolas Maduro, quest'ultimo ha manifestato l'intenzione di affrontare la necessità della costruzione di tale istanza. Ha posto la necessità che si tengano riunioni abituali e sistematiche con le varie forze che fanno parte di questo processo rivoluzionario.

Questo richiede del lavoro, richiede uno sforzo che non dipende soltanto da Nicolas Maduro anche se è lui che può darvi il maggior impulso in qualità di Presidente della Repubblica e, naturalmente, in quanto leader rivoluzionario. Ma richiede anche uno sforzo di tutte le forze politiche e rivoluzionarie in campo, che fino ad oggi hanno lavorato instancabilmente.

A giudizio di Jabour: "Di fronte all'acuirsi della lotta di classe in atto nella società venezuelana, che ha incrementato l'escalation di violenza da parte della destra subordinata o associata all'imperialismo statunitense e che ha utilizzato la complicità dei grandi mezzi di comunicazione a livello internazionale [è necessaria] oggi più che mai, la costruzione di un'istanza di direzione collettiva".


Temi per l'agenda

- Quali temi dovranno far parte dell'agenda di questa istanza di direzione collettiva se si costituirà? A una eventuale prima riunione, cosa proporrebbe il PCV?

 
I temi sono quelli inerenti al modello di sviluppo economico a cui l'Alto Governo vuole dare attuazione, la riforma fiscale, l'industrializzazione del paese, come vogliamo pianificare questa industrializzazione per uscire dall'economia fondata sulla rendita, avendo ben in mente che oggi il Venezuela fonda la sua dipendenza economica sui proventi petroliferi e che i proventi del petrolio sono per lo più appannaggio del settore privato, dove le valute prendono la destinazione voluta dall'imprenditoria privata. Questi sono elementi chiave che dovrebbero essere discussi. Un altro elemento di discussione è costituito dalle politiche del lavoro adottate dall'Alto Governo, crediamo sia un tema di interesse della futura istanza collettiva a cui dovrebbero partecipare tutte le forze che attualmente si stanno spendendo nel processo rivoluzionario. La discussione collettiva dovrà investire il tema del settore bancario: la partecipazione delle banche nell'economia nazionale, la partecipazione della banca internazionale nell'impresa petrolifera...
 
- Se questi temi venissero sottratti alla discussione, cosa accade?

 
Senza dubbio isolare questi temi dalla costruzione politica rappresenterebbe un fattore negativo per il processo rivoluzionario, tanto più che uno degli elementi fondamentali ed essenziali di questo processo è stata la partecipazione del popolo venezuelano. Questa è stata una bandiera sollevata dal Comandante Hugo Chavez, che ha elevato i livelli di organizzazione e partecipazione popolare e oggi vi è un'alta coscienza nei venezuelani rispetto la lotta antimperialista e per il socialismo. Di conseguenza, il socialismo è la maggiore e migliore democrazia, garantisce la maggiore e migliore partecipazione, la maggiore organizzazione e  pianificazione; per noi sono elementi fondamentali all'interno del sistema socialista.
 
Non si ritirerà
 
- Se questa struttura non si formasse, il PCV si ritirerà dall'alleanza o no?
 
Ciò non è in discussione. Per noi, l'elemento chiave dell'alleanza è la direzione antimperialista che ha posto il processo rivoluzionario; nella misura in cui esiste questo compromesso e sussistono i fattori che ci permettono di spingere ulteriormente il processo antimperialista, il Partito Comunista ci sarà.
 
- Continua ad essere un processo antimperialista quello di oggi? 

Fino ad oggi, il PCV lo ritiene un processo antimperialista.

- Critica e autocritica. Il problema è come si formano le critiche, lo scenario nel quale vengono formulate?

Come si formano e lo scenario dove si formulano le critiche e le autocritiche sono fattori importanti per noi. E' ovvio che il luogo deputato alla critica e all'autocritica sia intero, ma quando non vi sono meccanismi, quando si chiudono i canali interni, necessariamente utilizziamo il microfono, che spesso non è buon veicolo per il processo rivoluzionario: molti errori potrebbero essere omessi o alcune differenze si potrebbero smussare e risolvere attraverso il dibattito, la discussione, aprendo canali appositi.

- Quando non si hanno canali, la critica viene espressa pubblicamente. E' questo quello che sta dicendo, giusto?
 
Sì. Molte volte, quando questi canali non si aprono indubbiamente la critica e l'autocritica trova un'arena pubblica.

Lealtà e critica

-
Essere leali è omettere la critica e l'autocritica? Come concepisce il PCV la lealtà?

 La lealtà si concepisce applicando e esercitando la critica e l'autocritica. La critica e l'autocritica sono un esercizio rivoluzionario, che obbliga i fattori rivoluzionari, i settori rivoluzionari a caratterizzare e identificare gli errori che si possono commettere, identificare le omissioni che si possono compiere e porre l'attenzione sulla correzione per continuare ad avanzare.

- Perché allora, se la critica è così importante per una rivoluzione, è così difficile gestirla o trovare lo spazio affinché sia ricevuta?   

Questo ha indubbiamente a che fare con il difficile momento politico che il nostro paese sta vivendo, ha a che fare con la maturazione e la coscienza politica degli attori rivoluzionari, ha a che fare con le attitudini piccolo-borghesi, gli atteggiamenti settari. Nella misura in cui saremo in grado di allontanarci da questi atteggiamenti saranno più sopportabili, sarà più facile e più fluido l'esercizio della critica e dell'autocritica.

- Alcune persone pensano che essendo in una situazione difficile politicamente e con gli attacchi concentrici di cui è oggetto il paese, non si dovrebbero fare critiche. Che risponde il PCV a questo?

L'esercizio della critica e dell'autocritica è un esercizio indispensabile per il rivoluzionario. Molte volte dobbiamo stare attenti, il Partito Comunista lo è stato in varie occasioni, ma non si deve rinunciare a tale pratica e contemporaneamente si deve evitare di prestare il fianco al nemico, fornendogli delle armi da sferrare contro il processo che attraversa il nostro paese. E' per questo che facciamo pressioni perché siano aperti dei canali per esercitare il diritto di critica e autocritica, più volte in diverse occasioni e in diversi momenti del processo abbiamo insistito in tal senso.

 - E sono stati aperti?

Sono stati aperti, di solito; a volte no, ma spesso sono stati aperti.

L'aumento del costo della benzina non è necessariamente una misura neoliberista

- Considerate neoliberiste alcune misure economiche adottate?

 
Bisognerebbe conoscerle prima.
 
-Voglio dire, voi non qualificate come neoliberista l'aumento della benzina? 

 
No, non necessariamente.
 
- Consegnerete proposte economiche al Presidente Maduro?

Il Partito Comunista del Venezuela (PCV) realizzerà questo mese un plenum del Comitato Centrale, con un punto di partenza: nel paese vi è una situazione complessa, come ha detto lo stesso Yul Jabour in questa conferenza stampa.

Il tema del plenum è quello di fare una valutazione sulla situazione politica, le contraddizioni che si stanno sviluppando all'interno del processo, rivedere tutto quello che significano le proposte economiche che sta lavorando il Partito Comunista del Venezuela per consegnarle al presidente Nicolas Maduro e al governo nazionale.
 
- Queste proposte economiche che consegnerete al Presidente sono quelle già avanzate: cioè, eliminazione graduale dell'IVA, centralizzazione delle importazioni?

 
  Sì, la pianificazione per l'industrializzazione del paese.
 
- Un'ultima battuta sulla relazione dell'economia col settore bancario internazionale.

 
Oggi dobbiamo verificare quale relazione esiste con le banca internazionale, perché la banca, in particolare la banca d'investimento, rappresenta la cupola del capitale speculativo internazionale.
 
- Se il paese avesse bisogno di questa relazione, che penserà il PCV?

 
Bisogna valutare ogni aspetto, perché non sappiamo che cosa realmente sia questa relazione, né se si sta realizzando. Abbiamo inteso che c'è stata una riunione, ma non sappiamo se davvero si sta ponendo una relazione tra le nostre imprese, il Governo Nazionale e la banca internazionale.

Testo / Vanessa Davies
Fonte: Correo del Orinoco.



Yul Jabour: Se requiere “hoy más que nunca” construir “una instancia de dirección colectiva” de la Revolución


El PCV no tiene planteado retirarse del Gran Polo Patriótico
La lealtad se concibe aplicando y ejerciendo la crítica y la autocrítica”, señala el dirigente del Partido Comunista de Venezuela, quien asevera que el socialismo “es más y mejor democracia, es más y mejor participación”
Caracas, 7 jul. 2014, Tribuna Popular TP/Crédito: Correo del Orinoco.-

 Todos los lunes (como hoy) el Partido Comunista de Venezuela (PCV) ofrece una rueda de prensa en la que hace explícitas sus opiniones, sus reclamos, sus sugerencias. Como integrantes del Gran Polo Patriótico, los dirigentes de la tolda del gallo rojo -que insisten en que asumen la crítica como un ejercicio entre revolucionarias y revolucionarios- han hecho reiterados señalamientos no solo a favor de un gobierno colectivo, sino en contra de la política laboral del Ejecutivo; también han planteado que necesitan conocer las acciones económicas ya acordadas con el sector empresarial, y las que el Presidente pueda implementar en este momento.
El diputado Yul Jabour, miembro del buró político del PCV, ratifica que su partido continuará haciendo críticas y que, sean o no recibidas, no se retirará del Gran Polo Patriótico. En conversación con el Correo del Orinoco, asevera que el actual sigue siendo un proceso antiimperialista y ratifica el compromiso de las y los comunistas venezolanos con la lucha contra el gran capital internacional.

ALIADO “INCÓMODO”

-¿Es el PCV un aliado incómodo?

-Sí, es incómodo realmente porque el PCV es un partido comprometido con las luchas clasistas del pueblo trabajador, comprometido con las defensas de los derechos de los trabajadores y trabajadoras, comprometido en la lucha contra el gran capital internacional y el imperialismo norteamericano. Por supuesto, esto en distintos momentos del proceso ha hecho que el Partido Comunista tenga que ejercer ese principio revolucionario de la crítica y de la autocrítica para alertar sobre el error que desde nuestra perspectiva a veces visualizamos, y por supuesto para alertar sobre algunas omisiones que se estén dando y que nos alejan de lograr ese objetivo estratégico que exige la liberación nacional del pueblo y la construcción del socialismo.

-Habla de omisiones. ¿En este momento quisiera comentar alguna omisión o lo que percibe el PCV como omisión?
-Sí, por supuesto: La omisión de la instancia de la dirección colectiva del proceso revolucionario. Creo que es una omisión no solo en este momento, sino que ha sido un llamado reiterado del partido en distintas fases del proceso revolucionario y que, pese a ser distintos momentos, pese a anuncios que se han hecho planteando desde el alto Gobierno la intención de constituir una instancia de este tipo, hasta el día de hoy no lo hemos logrado hacer.

-¿Por qué? ¿Qué cree que pasa ahí?
-Posiblemente se puede hacer. En la última reunión que tuvo el Gran Polo Patriótico con el presidente Nicolás Maduro, el presidente Maduro manifestó su intención frente a la necesidad de la construcción de esa instancia, su intención de conformar esa instancia. Planteó la necesidad de que hubiese una reunión consuetudinaria, sistemática, con las distintas fuerzas que son parte de este proceso revolucionario.
Eso requiere de trabajo, eso requiere de un esfuerzo que no depende solamente del presidente Nicolás Maduro entendiendo que él es quien tiene la mayor fuerza para realizarlo por su condición de Presidente de la República y por supuesto por ser quien ejerce hoy un liderazgo en el sector revolucionario. Pero también requiere un esfuerzo de todas las fuerzas políticas y revolucionarias y que hoy hay que trabajarlas de manera incansable.
A criterio de Jabour, “frente a la agudización de la lucha de clases que se viene dando en la sociedad venezolana, que ha incrementado la escalada de violencia por parte de la derecha subordinada o asociada al imperialismo norteamericano y que ha utilizado la complicidad de grandes medios de comunicación a escala internacional”, se requiere “hoy más que nunca la necesidad de la construcción de una instancia de dirección colectiva”.

TEMAS PARA LA AGENDA
 
-Qué temas deberían formar parte de la agenda de esa instancia de dirección colectiva si se constituyera? En esa primera reunión, ¿qué propondría el PCV?

-El modelo de desarrollo económico que tiene que ver con la aplicación de esa política en el Alto Gobierno, la reforma tributaria, la industrialización del país, cómo vamos a planificar esa industrialización para salir de la economía rentista, entendiendo que hoy Venezuela mantiene la dependencia económica básicamente de los ingresos petroleros, y que los ingresos petroleros van en su gran mayoría al sector privado donde se les da destino a las divisas de acuerdo con la consideración del empresariado privado. Estos son elementos fundamentales que se deben discutir. También, las políticas laborales del Alto Gobierno que se vienen aplicando serían otro elemento de discusión en esa instancia colectiva que hoy requiere la participación de las distintas fuerzas que hoy se vienen dando en el proceso. Son elementos que indudablemente son parte de esa discusión colectiva que se vienen dando: el tema de todo lo que significa la banca, la participación de la banca en la economía nacional, la participación de la banca internacional en la empresa petrolera son elementos que nos toca hoy discutir.

-Si no se discuten, ¿qué sucede?
-Indudablemente que se estaría aislando la construcción de esa política y eso le haría un flaco favor al proceso revolucionario, entendiendo que uno de los elementos fundamentales y esenciales de este proceso ha sido la participación del pueblo venezolano. Esa ha sido una bandera que levantó el comandante Hugo Chávez, ha sido una bandera que tomó el pueblo venezolano junto al comandante Hugo Chávez en donde el pueblo ha elevado niveles de organización, niveles de participación y hoy hay una alta conciencia del pueblo venezolano en la lucha antiimperialista y por el socialismo. En consecuencia, el socialismo es más y mejor democracia, es más y mejor participación, es más organización, es planificación; para nosotros son elementos fundamentales dentro del sistema socialista.

NO SE RETIRARÁ

-Si esta estructura no se forma, el PCV se retiraría de la alianza o no está planteado?

-Eso no está planteado. Para nosotros el elemento fundamental de la alianza es el rumbo antiimperialista que se planteó el proceso revolucionario, y en la medida en que exista ese compromiso y que existan elementos que nos permitan seguir caracterizando el proceso como un proceso antiimperialista, el Partido Comunista estará allí.

-¿Sigue siendo un proceso antiimperialista el día de hoy?

-Hasta el día de hoy el PCV lo caracteriza como un proceso antiimperialista.

-Crítica y autocrítica. ¿El problema es cómo se formulan las críticas, el escenario en el que se formulan?

-Como se formulan y el escenario dónde se formulan es importante para nosotros; por supuesto que la crítica y la autocrítica nosotros la hacemos a lo interno; pero cuando no existen los mecanismos, cuando se cierran los mecanismos para hacerlo a lo interno necesariamente tenemos que recurrir al micrófono, que muchas veces no es bueno para el proceso, muchos errores que se pudiesen omitir o diferencias que se pudiesen menguar se pudiesen solucionar con mecanismos de debate de discusión, con canales, abriendo canales para la discusión y para el debate.

-Al no haberlos se llega a lo público. Es lo que plantea, ¿no?
-Sí. Muchas veces cuando esos canales no se abren indudablemente que esas críticas y autocrítica se ejercen públicamente.

LEALTADES Y CRÍTICA

-¿Ser leal es omitir la crítica y la autocrítica? ¿Cómo concibe el PCV la lealtad?

-La lealtad se concibe aplicando y ejerciendo la crítica y la autocrítica.
La crítica y la autocrítica son un ejercicio revolucionario, que obliga a los factores revolucionarios, a los sectores revolucionarios a caracterizar y a identificar errores que se puedan estar dando, identificar omisiones que se puedan estar dando y alertar sobre su corrección para seguir avanzando.

-¿Por qué entonces, si la crítica es tan importante para una revolución, es tan difícil manejarla o encontrar el espacio para que sea bien recibida?
-Porque eso indudablemente tiene que ver con el difícil momento político que está viviendo nuestro país, tiene que ver con la maduración y la conciencia política de los actores revolucionarios, tiene que ver con un desprendimiento de actitudes realmente pequeñoburguesas, de actitudes sectaristas. En la medida en que nos podamos desprender de esas actitudes va a ser más llevadero, más fácil, más fluido el ejercicio de la crítica y de la autocrítica.

-Hay personas que piensan que por estar en una situación difícil políticamente, y con ataques aquí y allá no se deben hacer críticas. ¿Qué respondería el PCV a esto?
-El ejercicio de la crítica y de la autocrítica es un ejercicio irrenunciable para el revolucionario y la revolucionaria. Muchas veces nosotros tenemos que tener cuidado, y eso lo ha hecho el Partido Comunista en distintas oportunidades: sin renunciar a ese principio, eso hay que dejarlo bien claro, sin renunciar a ese principio, pero para no entregarle elementos al enemigo que le sirva para torpedear al proceso que vive nuestro país. Por eso es que a veces hemos hecho mucho esfuerzo en que ese ejercicio de la crítica y de la autocrítica para que se pueda dar a través de canales, hemos forzado a que esos canales se abran muchas veces en distintas oportunidades y en distintos momentos del proceso.

-¿Y se han abierto?
-Se han abierto, generalmente; a veces no se ha logrado, pero muchas veces se han abierto.

EL AUMENTO DE LA GASOLINA NO NECESARIAMENTE ES NEOLIBERAL

-Medidas económicas que se tomen, ¿las calificarían de entrada como neoliberales?
-Hay que conocerlas primero.

-Es decir, ustedes no calificarían como neoliberal un aumento de la gasolina de entrada.
-No, necesariamente no.

ENTREGARÁN PROPUESTAS ECONÓMICAS AL PRESIDENTE
El Partido Comunista de Venezuela (PCV) realizará este mes un pleno del comité central, con un punto de partida: en el país hay una situación compleja, como lo dijo el mismo Yul Jabour en la rueda de prensa de este partido el pasado lunes.
El tema del plenario es hacer una valoración sobre cuál es la situación política, las contradicciones que se vienen desarrollando en el seno del proceso, revisar todo lo que significan las propuestas económicas que viene trabajando el Partido Comunista de Venezuela para ser entregadas al presidente Nicolás Maduro y al Gobierno Nacional básicamente.

-Esas propuestas económicas que se le van a entregar al Presidente son las que ustedes han planteado; es decir, eliminación progresiva del IVA, centralización de las importaciones.
-Sí, la planificación para la industrialización del país.

-¿Alguna otra? ¿Relación con la banca internacional?
-Hoy hay que revisar cuál relación con la banca internacional, porque la banca, y especialmente la banca de inversión, representa la cúpula del capital especulativo internacional.

-Si el país necesitara esa relación, ¿qué pensaría el PCV?
-Hay que evaluar eso, porque todavía no sabemos qué es lo que está planteado realmente en torno a una relación de este tipo, ni siquiera si está planteada la relación. Lo que hemos escuchado es que ha habido alguna reunión, pero no sabemos si está planteada de verdad una relación entre nuestras empresas, el Gobierno Nacional y la banca internacional.
Texto/ Vanessa Davies
Fuente: Correo del Orinoco.


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Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare